A New York si dorme e si clicca, ma le città vanno calpestate
Esercizi che chiudono, riferimenti che scompaiono, non solo librerie, piccolo commercio, perfino i grandi Mall che sono il cuore familiare della vita americana. Se Manhattan diventasse un luogo residenziale di stampo trumpiano sarebbe la sua fine
Unreal city è se ricordo bene l’inizio di un paragrafo della Terra desolata di T. S. Eliot. Pare che ci siamo. Interessanti corrispondenze, tra queste Paolo Mastrolilli da New York nella Stampa, parlano di esercizi che chiudono, riferimenti che scompaiono, non solo librerie, piccolo commercio, perfino i grandi Mall che sono il cuore familiare della vita americana. E non solo le microattività di dubbio profitto, anche il lusso, i Ralph Lauren, certi ristoranti di risonanza mitica, bar eccetera. Certo che se Manhattan diventasse un luogo residenziale di stampo trumpiano, la mappa del benessere abitativo come brand, e l’online che risolve tutti i problemi, e la spesa sul laptop, bè, sarebbe la sua fine. Al contrario di Parigi, che è amata perché attraverso una o due o tre generazioni ci ritrovi luoghi, decoro, libri, bistrot, atmosfere, sapori e puzze sempre eguali, New York ha il tratto del posto dove tutto cambia sempre, perché nulla magari possa mai cambiare, questo è stato per decenni il suo charme. A patto che non si incammini sulla strada del sobborgo residenziale, magari con un po’ di Broadway e di Lincoln Center, giochi culturali per grandi e piccini, ma con una patina di omologata e sonnolenta stabilità edilizia.
Sarà dura svellere il modo di vita della città, rendere la città irreale. Sarà lungo e alla fine non succederà. Ma i pericoli sono alle viste, e qualcosa anche nelle nostre città più o meno antiche, e belle, non solo Londra o Berlino, anche Milano e Roma, ci dice che bisogna difendere i buchi che abbiamo fatto nelle murature, nel cemento, nell’asfalto, una città senza buchi di riferimento, dove si dorme e si clicca, a parte il resto, è città morta.
Il mistero glorioso dell’urbanesimo è la proliferazione. Cose e persone e attività si dislocano nello spazio, la vita privata si fa mercato pubblico, nasce l’inaspettato, muore il consuetudinario, si moltiplicano le incognite, le paure, le miscellanee. Vale per la città greca, latina, vale per la città dei barbari, per l’oriente e l’occidente, per la città di Dante, mille volte da lui maledetta, e per quella di Shakespeare, uomo d’affari e di paese che però aveva sul Tamigi il suo palcoscenico.
Assorbita nella rete, che semplifica la vita, riduce i costi, aumenta l’accesso, ma riduce le occasioni o le disloca nell’aria invece che sulla terra, a portata di passeggiata, di conversazione a voce, di scambio e di conflitto, la proliferazione, il cui simbolo italiano è la viuzza che sbocca nella piazza, il marciapiedi più o meno affollato con le sue silhouette, le sue ombre, i suoi calori estivi, i suoi rifugi, i suoi pensieri segreti, rischia di perdere la sua ragione di vivere. Il giorno in cui fosse drasticamente ridotta la necessità di avere trasporti in comune, prospettive architettoniche percepite da occhi che le sanno guardare perché ci hanno fatto l’abitudine, sarebbe un giorno irreale e di spossessamento della nostra storia e umanità. Un brutto giorno.
Sono sempre stato contrario alle salvaguardie. Perfino Venezia mi sembrava buona per l’Expo. E non mi scandalizza, sebbene sia obiettivamente ripugnante, il turismo di massa, il rumore insopportabile dei trolley trascinati dalla modestia dei flutti di passaggio per ogni dove, gli inconvenienti bestiali dell’accessibilità universale. Ho sempre pensato che le città sono fatte per essere calpestate, e se affondano, pazienza, vuol dire che quello era il loro aureolato e benedetto destino. Ma perché qualcosa sia calpestato, bisogna che abbia consistenza. Un dormitorio più o meno di lusso, o periferico, nessuno vorrà mai calpestarlo con grazia e curiosità. Al massimo ci farà un nido noioso e ci vivrà in quel modo rudimentale che è tipico degli accampamenti. Le città furono, sono, dovranno continuare ad essere qualcosa di molto diverso.