Nella città desertificata c'è il compimento dell'incubo di George Romero
Ecco un mondo di vegani, astemi, asessuati e non fumatori. È l'Alba dei morti viventi
Allarmi allarmi, dalle città spariscono i negozi spazzati via dai siti di shopping online e dalle abitudini dei millennial. Per noi il primo campanello d’allarme era suonato in piazza Santo Stefano a Bologna, quando in una pausa del Festival dei Sensi, la filosofa della traduzione canadese Sherry Simon mi diceva preoccupata “quant’è bella Bologna così piena di negozi, non come a Montréal”. La Simon ha casa Umbertide, in Umbria, ed è amante delle città tanto da aver dedicato loro un saggio stupendo: Cities in Translation. Intersections of Language and Memory (Routledge 2012) tutto incentrato sulle città a doppia faccia, cioè con almeno due lingue prevalenti e conviventi come Barcellona, Calcutta, Trieste e Montréal che poi è la sua di città, dove come ben sanno i lettori Barney’s version, il boulevard Saint Laurent divideva in due fisicamente e simbolicamente la parte anglofona da quella francofona e solo nei peggiori bar di quel boulevard, fra spaccio, whiskey a buon mercato e prostituzione, era possibile chiacchierare o intrattenere relazioni di qualsiasi tipo fra persone di estrazione diversa, tanto che Leonard Cohen, che come molti altri se ne era andato via lasciandola anglofona e ritrovandola francofona due decenni dopo, si stabilì poi in una torre proprio lì, sul boulevard, per osservare meglio il confine che divideva e insieme univa. Insomma, anche una metropoli come Montréal al pari di New York vede scomparire i suoi negozietti più ordinari: quelli di magliette, di saponette, di scarpe da tennis.
Fioccano articoli, ultimo quello di Paolo Mastrolilli, inviato della Stampa a New York: “Meno negozi, più case di lusso: così New York cambia volto”. Zalando, Yoox, Amazon e compagnia stanno facendo strage oltreoceano, forse è anche uno dei motivi del tramonto dei centri commerciali, gli shopping mall che invece da noi continuano a prosperare ovunque, nella Bassa padana e nella circumvesuviana martoriata dagli incendi, ma non dal calo dello shopping, almeno per ora: ogni settimana va in scena lì o negli ipermercati della cintura romana (Euroma2 o nei tanti Carrefour h24) il rovesciamento del comunismo sovietico. Se in Unione sovietica la gente faceva file interminabili nei negozi sprovvisti di tutto, nel vulcano di Renzo Piano a Nola et similia le file lunghissime si ripetono ogni settimana senza interruzione.
Negli Stati Uniti invece si parla da qualche tempo apertamente di “Retail Apocalypse”, specie dopo la chiusura per fallimento di American Apparel, che porta le aziende a ripensare il loro futuro anche perché forse sono i consumi stessi a spostarsi dall’abbigliamento verso altri settori come la tecnologia o i viaggi (il turismo infatti continua a crescere ininterrottamente e in forme sempre nuove da quello sportivo, culturale, sessuale, religioso). In Italia è vero che c’è una diminuzione dei piccoli negozi, dalle librerie all’abbigliamento, ma c’è stato un boom di aperture di ristoranti e bar di ogni tipo e in città di ogni dimensione. Bene, secondo alcuni economisti questo è stato un modo per nascondere gli anni della lunga crisi economica (perché possiamo rinunciare al Suv, ma mai alla pasta di Gragnano con mozzarella di bufala Dop) anche perché non è molto costoso aprire una yogurteria o un negozietto di pochi metri quadrati che vende patatine fritte due volte, all’olandese: il difficile è tenerlo aperto e farlo funzionare. Ma ora anche tutto questo mondo è seriamente minacciato da molte app di ristorazione a domicilio, che rischiano di far chiudere anche i ristoranti più blasonati e non solo le friggitorie. Se negli Stati Uniti persino Uber ha adocchiato il problema varando zitta zitta la sua apposita divisione “Uber eats” (ma su questo ci rimettiamo al nostro agente all’Avana, Michele Masneri), in Italia c’è Foodora ad esempio, attiva già a Milano, Torino, Roma e Firenze, che porta in casa i piatti dei migliori cuochi di quelle città senza limiti di orario come invece quelli imposti dalle cucine. Sicché le persone di passaggio per lavoro che hanno un aereo alle 20.00 o semplicemente chi tira tardi per lavoro o per fatti suoi può avere in casa i piatti d’autore risparmiando persino qualcosa per esempio sul bere (com’è noto nell’alta ristorazione in Francia gli operatori guadagnano sui ricarichi sul vino, molto più che da noi in proporzione) e riscoprendo il piacere di cenare in casa cogli amici senza fare fatica e senza dover mangiare pizze raffreddate, ma alta cucina. In più i cuochi più conosciuti cominciano a fare due conti e a capire che gli conviene tenere le cucine sempre aperte con più turni di lavoro, tendenzialmente h24, invece che avere turni fissi con centinaia di coperti e di spese fisse. Quindi chef di grido potrebbero tenere ristoranti con pochissimi coperti e a menù carissimi, lavorando soprattutto con l’online.
Il risultato sarebbe una bomba H virtuale: città senza librerie, senza negozi di abbigliamento, senza negozi di scarpe, senza cinema, senza edicole, senza ristoranti, senza taxi e probabilmente anche senza banche, ma anche senza centri commerciali periferici. Altro che Città vuota di Mina (1963) o Il sorpasso di Dino Risi (1962) dove la solitudine era esistenziale o oggettiva per via delle ferie, altro che metafisica dechirichiana del meriggiare pallido e assorto. Abbiamo davanti una distopia degna del film Occhi bianchi sul Pianeta Terra (1975) o del suo brutto remake Io sono leggenda (2007), un mondo di vegani astemi asessuati atei e non fumatori. Il compimento dell’incubo di George Romero, scomparso giusto il 16 luglio, quello della Notte dei morti viventi.
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