Adolf Eichmann, fanatico assassino o grigio burocrate?
Un libro ribalta l'immagine che il nazista aveva voluto dare di sé durante il processo di Gerusalemme e che spinse Annah Arendt ha scrivere un volume sulla “banalità del male”
Il processo di Gerusalemme a Adolf Eichmann, che era stato catturato da agenti israeliani in Argentina, fornì a Annah Arendt, corrispondente del New Yorker, l’occasione per riflettere, in vari articoli poi raccolti in un volume, sulla “banalità del male”. La sua tesi, che vedeva nell’assuefazione alla burocrazia di uno stato totalitario la radice di comportamenti mostruosi come quelli di Eichmann, senza che vi fosse alla base una adesione fanatica ai dettami dell’antisemitismo, provocò un ampio e ruvido dibattito. Ora una studiosa, anch’essa tedesca, Bettina Stagneth, ripubblica una ricerca approfondita e puntigliosa (già edita in tedesco nel 2011) in cui si recuperano le testimonianze sulle conversazioni e le convinzioni di Eichmann durante la latitanza argentina, che ribalta l’immagine del “grigio burocrate” che l’imputato aveva voluto dare di sé durante il processo. Nel libro “la verità del male”, pubblicato in Italia da Luiss University Press, l’immagine di Eichmann risulta completamente diversa da quella del burocrate insensibile ma non malvagio consapevolmente che aveva indotto la Arendt alle sue riflessioni.
Eichmann non era affatto “incapace di pensare” e per questo indotto a far funzionare un meccanismo mostruoso di sterminio senza farsi domande. Era ed è sempre restato un fanatico antisemita: tra le sue dichiarazioni spicca quella in cui sostiene che “se 10,3 milioni di questi nemici fossero stati uccisi (dice parlando degli ebrei europei) allora avremmo adempiuto al nostro dovere”. Eichmann stesso si dice “un burocrate coscienzioso” ma “frequentato da un guerriero fanatico che lotta per la libertà del mio sangue, che è mio diritto di nascita”.
Naturalmente il fatto che abbia interpretato in modo parziale e tutto sommato fuorviante la personalità di Eichmann non cancella automaticamente il valore filosofico della riflessione della Arendt. In The Jewish Review of Books, lo storico delle idee Richard Wolin scrive: “Arendt aveva la sua personale agenda intellettuale e in conseguenza della sua inopportuna lealtà verso il suo primo mentore ed amante, Martin Heidegger, continuò ad applicare il concetto di ‘mancanza di pensiero’ (Gedankenlosigkeit) ad Eichmann. In questo modo, ella sottovalutò drasticamente la convinzione fanatica che ispirava le sue azioni”. Questa è un’evidente esagerazione. Caso mai è proprio la sua vicenda personale con il filosofo tedesco, che aderì al regime nazista e di cui sono venuti alla luce recentemente i cosiddetti “quaderni neri”, che induce la Arendt a capire che anche menti eccezionali possono essere trascinate sul terreno odioso del razzismo. La domanda sulla partecipazione corale del popolo tedesco ai misfatti del nazismo resta intatta e, se non si vuole dare una risposta egualmente razzista su caratteri particolari della stirpe germanica, richiede un esame dell’assenza di pensiero critico come base di una condotta moralmente consapevole.
Quello che forse può essere indagato meglio è il peso dell’ideologia, che la Arendt mette un po’ tra parentesi, e che invece è stata alla base dell’adesione al regime sia dei burocrati fanatizzati sia di grandi pensatori. Le ricostruzioni di comodo, che descrivono un popolo tedesco inconsapevole e obbediente, che aderiva allo stato con ingenua fiducia senza per questo aver intimamente accettato l’ideologia del sangue è consolatoria ma irreale. Le teorie deterministe, che escludono la responsabilità e la libertà personale, visto che considerano la storia determinata da fattori oggettivi, siano le radici razziali o quelle sociali, forniscono spiegazioni onnicomprensive e totalizzanti, con la pretesa di rappresentare l’estensione politica di principi scientifici. Rispondere a questo con un richiamo a Socrate o a Kant è troppo e troppo poco. Troppo perché non si può chiedere alla singola persona comune di confrontarsi da sola con le contraddizioni del mondo per trarne una coscienza morale puramente individuale, troppo poco perché trascura i fenomeni concreti attraverso i quali si affermano (o possono essere contrastate efficacemente) nello spazio pubblico le ideologie deterministiche. Il fatto che si sia messa in luce la radice ideologica delle convinzioni di Eichmann non cancella le domande di Annah Arendt, ma sottolinea i limiti della sua risposta.