Ho un cubetto di ghiaccio nel cuore che mi dice: scrivi
Francesco Piccolo racconta l'eccitazione, la disciplina, la gioia di essere arrivato su Marte, la corsa contro il tempo perduto e l'obbedienza a un padrone che non lo libera mai, né la notte né sul tapis roulant
“Il mio problema è che io penso poco alla mia vita, penso di più ai libri”, dice Francesco Piccolo alla fine di questa intervista, mentre provo ad aprire la porta, con domande ostinate, su una specie di ritrosia gentile: dentro la brillantezza e l’apertura al mondo c’è la volontà di preservare un nucleo solitario e segreto. “Io passo attraverso crisi, euforie, lutti come quello di mio padre, che è morto quest’anno, passo attraverso eccitazioni, giornate bellissime con i figli, passo attraverso la tensione verso i figli quando si ha paura che stiano soffrendo, e però sempre, nel giorno del dolore grande e nel giorno della grande felicità, io comunque mi siedo e scrivo. Così è strutturata la mia vita, e nulla riesce ad abbattermi su questo”.
Tutte le cose che non so fare, non so esprimere, provo a risolverle
con i libri. Come l’amore per mio padre.
Non vale, dovrebbe valere la vita
Francesco Piccolo, che ha vinto il Premio Strega nel 2014 con “Il desiderio di essere come tutti” (Einaudi), racconta lunghe giornate di lavoro che iniziano all’alba, “preparo una enorme moka e mi siedo davanti al computer”. “Tutto quello che scaturisce da questo lavoro – dice Piccolo – relazioni, festeggiamenti, persone, rapporti, per me vale solo quando ho finito di fare il mio compito. Per esempio, io dentro di me ho un padrone che mi dà ordini, e uno degli ordini è: se tu fai tutto quello che avevi detto di fare puoi ascoltare la musica, altrimenti no. Fino a quando non finisco tutto non posso ascoltare Renato Zero. Solo che poi tutto questo mi porta a impazzire, e non ascolto semplicemente Renato Zero, ma faccio Renato Zero nel mio studio da solo con il microfono in mano come gli adolescenti, perché mi devo sfogare di questa liberazione. Questo è il mio sistema di vita, si basa sulla rinuncia, e arriva da molto lontano, da quando da ragazzo a Caserta scrivevo vergognandomi di scrivere: le cose che facevo a casa, di nascosto, piano piano si sono allargate e io ho cominciato a non andare più in vacanza, così mentre i miei amici erano fuori mi sembrava di recuperare il tempo perduto: un agosto ho visto tutti i film di Bergman, quello dopo ho letto tutto Proust, poi ho visto tutto Hitchcock, ogni volta mi davo degli obiettivi che riuscivo a raggiungere ed era una cosa che mi dava euforia”.
Il mio sistema di vita
si basa sulla rinuncia: fino a quando
non ho finito di scrivere, ad esempio, non posso ascoltare la musica
Ai tuoi amici a Caserta dicevi: resto a casa perché devo leggere Proust? “Certo che no, inventavo scuse: non ho soldi, devo andare a prendere la mia fidanzata, devo aiutare mia madre. Ma quest’idea della rinuncia è talmente salda che io negli anni l’ho fatta diventare una cosa che mi piace e sembra che me ne vanti. Dico in modo anche molto arrogante che non mi piacciono i weekend, non mi piacciono le vacanze, non mi piace la campagna, non mi piace comprare una camicia, non mi piace fare niente se non fare quello che faccio. E’ verissimo, nella sostanza, ma deriva da una scelta iniziale un po’ insensata che poi pian piano si è costruita come modo di stare al mondo, come metodo per fare tutte le cose che voglio fare: la letteratura, il cinema, la televisione, i giornali. Mi serve, e poiché mi serve mi sembra di avere avuto la capacità di farmelo piacere, tant’è che sono diventato una persona saldamente rinunciataria rispetto a tanti piaceri della vita, perché il mio piacere è quello: lavorare”.
Non mi piacciono
i weekend, non mi piace la campagna, non
mi piace comprare
le camicie, mi piace solo fare quello che faccio
Il cammino di Francesco Piccolo è stato lungo, all’inizio inconsapevole, poi sempre più netto, sempre più pieno di tutto quello che uno scrittore può creare con le parole: i libri, i film, la televisione, i giornali, il teatro. E’ un cammino che ha a che fare soprattutto con la felicità di scrivere, mi sembra, e anche con lo stupore di esserci riuscito, di essere arrivato fino a qui. “A sedici anni scrissi un romanzo sulla mia compagna di banco, era un romanzo straziante sul mio amore per lei ed era molto brutto, io ne ero cosciente, ma allo stesso tempo sentivo questa grande felicità di scrivere nella stanza mia e di mio fratello, di nascosto da lui perché mi vergognavo, e lì ho pensato per la prima volta che avrei voluto scrivere per tutta la vita. Ma non ho mai pensato di diventare scrittore, mai: io stavo a Caserta, vivevo una vita completamente diversa, leggevo i classici o leggevo Moravia, vedevo la foto sull’Espresso di Moravia e pensavo che Moravia stesse su Marte: sapevo che esisteva ma che non mi avrebbe mai riguardato. Ma quella cosa stranamente mi dava una grande euforia, dico stranamente perché non era uno sfogo a una solitudine, a delle frustrazioni, anzi io vivevo una vita piena di divertimento, quindi era anche assurdo sottrarre delle ore alla mia vita sociale, e sottrarle per una cosa inutile e brutta come quel romanzo brutto, ma era talmente forte per me che ho preso una decisione un po’ folle: nella vita avrei dovuto trovare un lavoro che mi permettesse di scrivere, ad esempio il giornalista della cronaca sportiva del Mattino, perché volevo scrivere diari, racconti, romanzi, ma senza pensare di fare lo scrittore. Mi rendevo conto che ero molto scarso ma pieno di desiderio”.
Scrivere mi dava
una grande felicità,
ma credevo che Alberto Moravia stesse su Marte e che non mi avrebbe mai riguardato
Non credevi di essere Hemingway? “No, e non è irrilevante, perché questo giudizio abbastanza preciso su quello che faccio mi ha accompagnato sempre, quindi anche allora la sensazione che scrivevo cagate un po’ valeva, e a un certo punto ho fatto una cosa tutta da solo, senza ambizioni: ho detto va bene, se voglio scrivere devo essere più bravo, quindi ho smesso di scrivere. Facevo l’università e intanto lavoravo a Napoli, avevo cominciato a vivere in modo anche più triste, lì mi è arrivata l’insonnia perché mi sentivo improvvisamente infelice, mi alzavo alle cinque e mezza di mattina per prendere il treno, lavorare e studiare insieme, e mi sembrava che quella fosse la fine della mia vita. Però ho deciso che per un anno avrei solo letto, studiato e cercato di crescere, grazie all’università anche, ma soprattutto grazie alle letture: ho letto il triplo di quello che già leggevo, ho cercato di capire qualcosa di più”. Avevi già in mente una strada, avevi un giudizio preciso, avevi molto. “Avevo in mente una strada e un metodo ma non pensavo che mi avrebbero portato a qualcosa: in quell’anno però ho letto i Taccuini di Fitzgerald, fatti di frasi che lui appuntava, e allora mi sono comprato un quaderno piccolissimo e lì ho cominciato a scrivere delle frasi che mi sembrava che arrivassero da qualcosa di più importante. Poi ho ricominciato a scrivere racconti su cose lontanissime da me, che non parlavano né della realtà né di me, era una specie di surrealismo di Caserta: un paio di occhiali, due onde che si incontravano e si innamoravano, ma pian piano sono arrivato a scrivere cose più vicine a me, e ho scritto i racconti che ha letto Domenico Starnone e che poi sono diventati Storie di primogeniti e di figli unici, il mio primo libro”. Pubblicato da Feltrinelli vent’anni fa, quando Piccolo aveva trentadue anni e viveva già a Roma, lavorava per minimum fax, si era liberato, racconta adesso, di quella “casertanità”. “A Roma ho capito che non dovevo spiegare nulla, che potevo esprimere me stesso, che c’erano altri che vivevano così, e improvvisamente perdere quella parte di me di casertanità mi liberava dall’obbligo di vivere la vita in un altro modo, prima ero una persona un po’ spezzata, che si vergognava e però si struggeva, a Roma sono diventato una persona unica e questa cosa mi ha drogato, perché è stata una scoperta: io volevo essere così da quando avevo cinque anni e invece sono così da quando ne ho ventotto, ed è come se dovessi recuperare tutto il tempo che ho perso”. Recuperare significa lavorare tantissimo, sempre di più, significa obbedire a questo dittatore di cui parli e di cui parla Natalia Ginzburg nelle “Piccole virtù”. “Io apro gli occhi e lo scrivere mi ha preso già, e lo porto con me finché chiudo gli occhi la notte, ma essendo un insonne lo scrivere mi prende pure durante la notte. Da una parte lo sento padrone e vorrei un po’ abbandonarlo, vorrei rilassarmi, ma dall’altra parte ci sono aggrappato completamente, non riuscirei a vivere in nessun altro modo. Questo padrone è anche un padrone seduttivo, mi costringe a una cosa che amo molto. Ovviamente c’è un altro padrone, che è la necessità con se stessi della disciplina. Da quando ho cominciato a scrivere cinema ho un padrone e un gruppo che dice: dobbiamo raggiungere un risultato, ma quando si tratta di scrivere da solo, leggere un autore perché mi interessa, leggere i libri che mi servono per i miei libri, me lo può imporre soltanto questo me stesso che è il proprietario della mia vita: gli sono devoto, perché è molto feroce e mi dà dei compiti giornalieri, settimanali, mensili”.
Lo scrivere
è il mio padrone, seduttivo e feroce.
A volte vorrei abbandonarlo un po', ma so che non potrei vivere in altro modo
Fitzgerald diceva: la mia vita è la storia di una lotta tra l’impetuoso desiderio di scrivere e una serie di circostanze tendenti a impedirmelo. Lo dico a Piccolo che si illumina e racconta il suo metodo di lavoro, ma sembra un po’ anche un metodo esistenziale: “Faccio lunghi elenchi di cose da fare, in cui metto tutto: quello che devo scrivere, leggere, le persone a cui devo telefonare, posso scrivere anche: volere più bene a, perché io mi do un compito per tutto, devo organizzare la mia vita in modo da riuscire sempre a sapere quello che faccio e quello che non faccio, metto a nudo la mia schizofrenia, in questi compiti settimanali e mensili metto anche di andare avanti con gli appunti di un libro che non so nemmeno se scriverò e se lo scriverò lo scriverò fra dieci anni, perché sento che devo portare avanti insieme tutti i carrarmartini del Risiko. Insomma. il mio dittatore è anche il mio gioco preferito, è un gioco svegliarmi la mattina alle cinque e sapere di avere davanti questa battaglia. Le persone dormono e io lavoro, e amo molto lavorare la mattina presto, lavorare il sabato e la domenica e lavorare ad agosto. Mi sembra che sto riuscendo a recuperare tempo nei confronti del mondo. Perché l’unica questione vera è il tempo. Il tempo che serve per scrivere per tutti i libri che ho in testa, per tutte le cose a cui non voglio rinunciare”.
Mi sento sempre insufficiente come padre e insufficiente come marito, ho l'impressione che si chiedano
se ci sono veramente
Il racconto di questa ossessione costruttiva fa pensare al contrasto con l’impressione di naturalezza che viene, sempre, dai libri di Francesco Piccolo. Momenti di trascurabile felicità e Momenti di trascurabile infelicità, ma anche Il desiderio di essere come tutti, che lega insieme fatti privati e pubblici, leggerezza e complessità per raccontare una formazione politico esistenziale: libri diversi che hanno la caratteristica comune di sembrare immediati, arrivati facilmente dalla testa alla pagina. “La naturalezza è sempre costruita – dice Piccolo –, per me è il risultato di un cammino lungo e strano. Ad esempio io ho cominciato a pensare al Desiderio vent’anni prima di scriverlo: scrivo in maniera disordinata un sacco di cose diverse, poi le metto in vari file, li apro e accumulo cose. Quello è il periodo della mia vita che amo di più: quando gli obiettivi sono lontani. Amo gli anni in cui non pubblico, anche gli anni in cui non escono i film, quando ho davanti mesi in cui devo lavorare e non raccogliere i risultati io mi sento felice. Quando decido di scrivere un libro, quindi, e apro quel file, trovo centocinquanta, duecento, anche trecento pagine in cui c’è di tutto. Questo mio modo di scrivere i libri, sia quando sono dei file, sia quando ci sono dentro completamente, sia quando metto insieme Carver, Berlinguer e mio padre, tutto questo rende la mia vita sempre piena di possibili cose decisive per i miei libri. Se io leggo Annie Ernaux, la leggo perché voglio leggerla, ma la leggo sapendo che può arrivarmi anche una cosa che mi serve, che mi riguarda. Se guardo una serie tivù o anche Masterchef, lo guardo perché mi diverte, ma so che mi può aiutare a spiegare una cosa che voglio raccontare, o a raccontare una cosa che voglio spiegare”. Piccolo si accorge che lo guardo con un po’ di paura: che si metta a scrivere e non finisca l’intervista. “Mi rendo conto che tutto questo divide molto, nella mia vita, quanto è eccitante questa cosa per me e quanto sono eccitante io per gli altri, perché so benissimo che io dentro questo mondo interiore sono vivo, ma non so bene, a guardarmi da fuori, se lo sono anche per gli altri”. Chi sono gli altri? “La mia famiglia, gli amici, le persone che mi stanno vicino: mi sento sempre insufficiente come padre e insufficiente come marito, ho sempre l’impressione che si chiedano se ci sono veramente, se sono almeno un po’ affidabile, non so se sia un difetto professionale o un difetto esistenziale”.
Un piede dentro e un piede fuori, e ancora una malinconia spiritosa, aggrappata alla consapevolezza pudìca ma salda di una vocazione: “So di avere questo cubetto di ghiaccio nel cuore, come ha scritto Graham Greene, che davanti a ogni cosa e a ogni persona e a ogni situazione mi fa dire soprattutto: scrivi. Non so se sono nato così e quindi ho trovato un modo per usare questa difettosità, oppure se la grande passione per lo scrivere abbia un po’ ucciso tante altre cose di me. Uno degli sforzi della mia vita è quello di essere più presente di quello che sono perché lotto con la certezza di essere presente a metà, ma è successo a un certo punto che non mi sono più fermato”.
Quando è morto tuo padre che cosa è successo al tuo cubetto di ghiaccio? “E’ stato molto doloroso e ha riportato improvvisamente alla memoria mio padre com’era prima della malattia, perché mio padre già da anni non era più mio padre, quindi è stato un dolore a tappe. Con mio padre ho avuto molti conflitti, ma i miei genitori, che non erano intellettuali, hanno seguito la mia strada timidamente ma con molta adesione: ricordo con commozione che sono andati a vedere, insieme, al primo spettacolo, il primo giorno a Caserta, tutti i film che ho scritto, fino a che mio padre si è ammalato e si è perso. E al Premio Strega mio padre non è venuto perché non era più lucido. Credo di avere vinto lo Strega troppo tardi per la sua capacità di capirlo, e mi è rimasta dentro come una cosa che ho perduto, perché sono sicuro che per lui sarebbe stato importante. Sono andato a Caserta e gli ho chiesto: hai capito che ho vinto lo Strega?, lui ha risposto: sì certo, ma quel sì certo faceva capire che non aveva capito”. Dentro le cose che racconti con dolore, un dolore aiutato dall’ironia, anche nei libri, c’è spesso Caserta: “L’idea di essermi liberato di Caserta è anche un’idea ingrata, perché è fonte di tantissima scrittura ed è ovvio che ho un legame fortissimo, ma quando vado a Caserta scalpito per scapparmene, perché ho l’impressione che sennò ci rimarrò di nuovo tutta la vita, e ho un incubo: che ogni volta che vado a dormire a Caserta, a casa dei miei genitori, poi mi sveglio come uno che è stato sempre a Caserta e non è mai andato via. Però non ho intenzione di risolvere questo conflitto, perché penso che in qualche modo lo risolverò nei libri. E questo è un altro aspetto spaventoso di me: tutte le cose che nella vita non so fare, non so esprimere, credo di poter provare a esprimerle attraverso i libri. Se non ho espresso abbastanza amore verso mio padre credo di averlo risolto attraverso delle cose che ho scritto nei libri: faccio finta di non sapere che questo non vale, dovrebbe valere la vita, ma che ci posso fare”.
Io voglio raccontare
le cose vere
e non le cose giuste,
e per essere veri serve
il coraggio di tirar fuori come si è veramente
Ecco il metodo autobiografico di Francesco Piccolo, il modo con cui racconta di sé e intanto del mondo, e intreccia la sua vita alla scrittura: “La mia forma di scrittura è quella della libertà: usare qualsiasi cosa per raccontare. Partendo da uno stato di confusione, come faccio io con il file pieno di cose diverse, quella libertà arriva. Se scrivi: domani Anna Karenina vede Vronskij, sai che cosa ti aspetta nel capitolo successivo, Karenina che vede Vronskij. Il tipo di libro che tendo a scrivere io, e che amo anche negli altri scrittori, è il libro che invece non sai da dove ripartirà al prossimo capitolo. Mi mette in uno stato di agitazione euforica anche come lettore, e per me è un valore. Così come mi mette in agitazione l’autobiografismo. Se penso che lo scrittore stia dicendo una cosa che lo riguarda, qualcosa di reale, mi sembra che non sto solo leggendo, ma sto spiando una verità, non mi rasserena ma anzi mi agita, e dà qualcosa in più”. Questa libertà la muovi prendendo come guida molto più i difetti delle virtù. “Io voglio raccontare le cose vere e non le cose giuste, quindi se voglio raccontare le cose vere devo anche raccontare cose di me stesso, o del mondo, che non mi piacciono. I libri di personaggi edificanti che danno luce non li capisco tanto, mi piacciono i libri che mettono ombre al lettore, che fanno sentire la persona che legge un po’ di meno, non un po’ di più. E per essere veri bisogna avere il coraggio di tirar fuori come si è veramente, se si va sulla scia delle grandi idee giuste poi la verità non si riesce a raccontarla”.
Questo però non è solo un metodo narrativo, è anche un modo di vivere. “A volte sospetto che sia diventato un modo di vivere dopo essere stato un metodo narrativo, mi sembra che da Allegro occidentale, da quando ho capito che per me scrivere era tirar fuori cose vere, anche spiacevoli, anche discutibili, forse ho avuto anche il coraggio di pensarle per la vita e non il contrario: mi sembra che la scrittura in questo abbia guidato, è la scrittura che mi ha fatto capire che si poteva dire quello che si pensava senza aggiustarlo, e che questo è vitale e porta a qualcosa di buono”.
Da Nanni Moretti
ho imparato il rigore,
da Starnone l'enorme capacità di lavoro,
da Virzì a buttarmi dentro un'idea
Gli dico che infatti fra gli scrittori italiani sembra il più diretto, ma anche allegro, capace di non far pensare a Silvio Pellico. “Per uno che ha scelto di muovere la sua vita in modo da avere uno spazio per scrivere e pensava che Moravia stesse su Marte, stare su Marte è una cosa che ancora sento come fichissima e di questo non mi vergogno per niente e anzi sono spudorato, credo che la fatica del lavoro sia una cosa da tenere a casa, tutto il resto è il godimento del lavoro che hai fatto. Dico sempre quando scriviamo un film che il mio obiettivo è: la festa dopo l’anteprima, non solo perché voglio ballare e ubriacarmi, ma perché quel ballare e ubriacarmi è il godimento della liberazione”. Lì su Marte hai incontrato un sacco di gente, hai lavorato con loro, hai imparato da loro? “Tantissimo, da queste persone ho preso tanti modi di lavorare, sono cresciuto, per esempio Nanni Moretti è stato un faro dal punto di vista del rigore, io il rigore ce l’ho dentro ma vedendolo in lui mi sono sentito autorizzato a coltivarlo. All’inizio del mio lavoro di scrittore io mi affidavo agli altri: affidavo agli altri le quarte di copertina, la nota biografica, la divisione in capitoli. Io adesso sono il terrore di chi mi chiede la nota biografica perché ci lavoro per tre giorni, ed è stato Nanni Moretti a insegnarmi che nessuno si può prendere la responsabilità di queste cose tranne te, la responsabilità è solo tua. Da Starnone, con il quale per molti anni ci siamo parlati al telefono tutte le mattine, arriva questa enorme capacità di lavoro, per me lui è stato un grande esempio: insegnava a scuola, scriveva per il cinema, aveva le rubriche sui giornali e scriveva i romanzi. Paolo Virzì mi ha insegnato che per fare una cosa bisogna buttarcisi dentro, non si sta lì fuori a decidere: intanto che lavori capisci se quell’idea ha valore e capisci come la puoi fare. Tutte le volte che abbiamo fatto un film lui mi ha detto: vieni a casa parliamo un po’, e dopo mezz’ora stavamo scrivendo davanti al computer. Tutte le persone in qualche modo se tu hai un’ossessione per questo lavoro ti danno un’idea del lavoro”. Mi volto per cercare altre prove di ossessione, in questo studio pieno di libri, anche divisi per mucchietti con sopra i post-it (i libri per i prossimi libri?) e pieno di raccoglitori colorati, ognuno con un titolo diverso, alzo gli occhi verso il soppalco e vedo un enorme tapis roulant. Quindi fai sport? chiedo atterrita “Ero un atleta da ragazzo, vivevo in tuta, poi non ho fatto più niente per non perdere tempo, ma Saverio Costanzo, con cui sto scrivendo insieme a Laura Paolucci la serie tivù dall’Amica geniale, un giorno mi ha detto brutalmente che avevo il respiro molto pesante e che dovevo fare qualcosa, e poiché ha provato a consigliarmi lo yoga e io ho detto che lo yoga non doveva neanche nominarlo, ho comprato il tapis roulant perché ho capito che intanto potevo guardare un film, o una serie tv: lo faccio tutti i giorni e questo respiro pesante se n’è andato, è diventato un’altra piccola droga perché mi sembra di recuperare il tempo perduto”. Stai ancora recuperando il tempo che hai perduto quando avevi cinque anni. “E chissà quando finisce”. Ma la cosa più importante che hai imparato, da quando ti si è conficcato questo cubetto di ghiaccio nel cuore? “Che gli unici libri che voglio scrivere sono quelli per cui la mattina mi sveglio e mi sento euforico di mettermi a lavorare”.
5 - continua. Per la serie “Gli scrittori del sole” sono uscite finora sul Foglio le interviste a: Edoardo Albinati, il 24 giugno; Valeria Parrella, il 1° luglio; Sandro Veronesi, l’8 luglio; Domenico Starnone il 15 luglio.