Abbiamo bisogno di riforme liberali, non socialiste. E realizzarle è difficilissimo
Paolo Franchi è sicuro che ispirarsi alla giustizia sociale sia una esclusiva dei socialisti? C'è più di qualche dubbio
Sul Corriere della sera del 25 luglio è apparso un articolo di Paolo Franchi, che è stato intitolato “Il socialismo è malato (ma può anche riprendersi)”. Si tratta di un articolo significativo, che merita qualche commento. Il socialismo è morto?, si chiede Franchi. E risponde: “Andiamoci piano. Di sicuro gravissimamente malati sono i partiti socialisti e socialdemocratici per come li abbiamo conosciuti, i quali, dopo aver stravinto la lunga guerra a sinistra, sono poi riusciti, uno dopo l’altro, a straperdere la pace”. I motivi del disastro, dice Franchi, sono tantissimi, ma uno prevale su tutti: “La diffusa convinzione che, caduta l’Unione Sovietica, anche la stagione della battaglia per ‘portare avanti quelli che sono nati indietro’ fosse finita una volta per tutte, assieme a quella del compromesso democratico tra capitale e lavoro organizzato, che aveva garantito in Europa la prosperità e la democrazia nei decenni precedenti; e che si trattasse piuttosto di dimostrarsi più convincenti delle destre nel praticare la religione del mercato nel tempo della globalizzazione”.
E’ accaduto così, dice Franchi, che i partiti socialisti e socialdemocratici abbiano conquistato spesso il governo, ma abbiano smarrito la loro stessa ragione sociale di esistenza, senza riuscire a individuarne un’altra che non fosse quella, pur meritoria, della difesa e dell’allargamento dei diritti civili e delle libertà individuali. Il risultato di questa politica è stato che in Europa e in tutto l’occidente, chi era nato indietro è stato ricacciato ancora più indietro, con una crescita senza precedenti delle sperequazioni sociali.
Colpisce, nel discorso di Franchi, l’assenza di alcune distinzioni, tanto elementari quanto fondamentali. Infatti, quando Franchi dice che il socialismo non è morto, dovrebbe dirci che cosa intende con la parola “socialismo”. Perché Franchi sa bene che da Marx in poi “socialismo” significa socializzazione (o statizzazione) dei mezzi di produzione e di scambio: da noi, in Italia, questo era l’obiettivo di Gramsci non meno di Turati. Ma Franchi sa bene che questa strada è fallita (tragicamente e sanguinosamente fallita) in tutti i paesi in cui è stata percorsa. Sennonché, a veder bene, Franchi intende per “socialismo” la via delle riforme e della elevazione sociale dei ceti più miseri. Ma allora, attenzione: perché “l’ambizione antica di portare avanti quelli che sono nati, o sono stati ricacciati, indietro”, richiede, in primo luogo sviluppo economico, crescita economica, maggiore produzione di ricchezza. E in un paese come il nostro, gravemente impacciato da mille corporazioni, da mille privilegi (anche sindacali), da mille lacci (si pensi al peso enorme delle migliaia di “società partecipate”, quasi tutte in perdita) – in un paese come il nostro, dicevo, tutto il tessuto economico-sociale ha bisogno, assoluto bisogno, di essere sempre più aperto alla concorrenza: senza questa apertura è impossibile produrre maggiore ricchezza, è impossibile competere sui mercati internazionali. Perciò Franchi sbaglia quando dice: “La parola indicibile, socialismo, può di nuovo essere pronunciata e declinata”. Sbaglia, perché quello di cui abbiamo bisogno non è costituito da riforme socialiste, bensì da riforme liberali. E Dio sa quanto sia difficile realizzarle, e, una vota realizzate, conservarle (c’è sempre un sindacato pronto a indire un referendum per abrogarle).
Il giusto impegno per la giustizia sociale, invocato da Franchi, cioè per elevare chi è rimasto indietro, troppo indietro, può conseguire risultati solo in un quadro di sviluppo, di crescita, di maggiore ricchezza prodotta dalla società.
Un’ultima chiosa: Franchi è proprio sicuro che ispirarsi alla giustizia sociale sia una esclusiva dei socialisti? Avrei qualche dubbio. Franchi ha certamente letto un grande liberale come Raymond Aron, e in esso ha certamente trovato parecchie delle sue preoccupazioni. Ma Aron era appunto un liberale, non un socialista.