La sfida al pensiero unico
Paris Science et Lettres, l’università che punta su libertà e interdisciplinarità. Un’idea dell’Ecole Normale per tentare di resistere all’omologazione contemporanea
Sugli stipiti di Rue d’Ulm ci sono le due date fatidiche: 1794, anno III della Rivoluzione francese, e 1804, l’anno dell’incoronazione imperiale di Napoleone. L’École Normale Supérieure (Ens) si presenta così, voluta e autorizzata dagli esponenti più rivoluzionari, in sensi diversi, della storia di Francia. In poche parole, il miglior prodotto della cultura di stato francese. Pensata dai giacobini per esportare la cultura rivoluzionaria in tutta la Francia, spesso ignara e ostile alle novità parigine, e poi – finiti gli eccessi giacobini – rimasta lì come luogo di formazione eccellente per professori e ricercatori, a prescindere da quale fosse l’orientamento e la forma dello stato di cui l’École è sempre stata servitrice d’eccellenza. Qui la Francia ha creato la sua cultura degli ultimi due secoli: solo per dare qualche numero ci sono stati 13 premi Nobel, 10 medaglie Fields – il Nobel della matematica – una sfilza innumerevoli di nomi celebri in ogni campo, da Pasteur a Sartre, da Galois a Derrida, da Durkheim a Bergson. Il solo elenco dei normaliens fa impallidire quasi tutti gli istituti di eccellenza del mondo. Pochi sanno, tuttavia, dove sta il segreto del successo e, meno ancora, percepiscono il potente cambiamento che è in corso e che finirà, come sempre, per influenzare tutta l’Europa.
Una volta entrati all'Ens, lo studente, ormai élève, viene affidato a un tutor che sarà un vero e proprio maestro
Ma andiamo per ordine. Dove sta il segreto dell’École? Si è detto dell’appoggio di stato. All’École si entra da sempre con un concorso difficilissimo: servono due anni di preparazione dopo le superiori, per premiare alla fine 220 studenti (di cui solo 20 stranieri, purtroppo) su quasi duemila candidati, almeno così è stato negli ultimi anni. Una volta entrati, però, si gode dell’incredibile sostegno di uno stato che crede nella ricerca. Gli élèves dell’École sono da subito ufficiali pubblici e, come tali, vengono pagati durante i loro anni di permanenza, altrettanto gratuita, nei locali della storica Rue d’Ulm, a due passi dal Panthéon, sulla cima del Quartier Latin, cuore dell’insegnamento universitario fin dal 1200. Certo, il budget dell’Ens, anch’esso pubblico, è enorme: un po’ più di 100 milioni all’anno per circa 2.000 studenti. E qui, si dirà, si chiude il problema del segreto: basta avere i soldi. Sarebbe tuttavia uno sguardo molto superficiale. Altre istituzioni nel mondo hanno budget importanti e ben maggiori di questo, ma non riescono a produrre la medesima qualità di ricerca. Non sta qui il segreto, anche se il finanziamento adeguato, pubblico o privato – è bene ricordarlo – è una condizione necessaria anche per i compiti educativi. L’idea che si possa promuovere ricerca e istruzione senza soldi è tanto peregrina quanto pericolosa. Il segreto dell’eccellenza assoluta dell’Ens, però, non si conclude con i soldi e nemmeno con l’ammissione ultra-selezionata. Una volta entrati all’Ens, infatti, lo statalismo giacobino lascia il passo alla più incredibile delle libertà medievali. Lo studente, ormai élève, viene affidato a un tutor che sarà un vero e proprio maestro, una specie di staretz, dei suoi studi superiori. Con il tutor l’allievo deciderà il percorso che lo porterà al diploma dell’École – una promotion, peraltro solo da pochi anni obbligatoria, che gli allievi usano da sempre festeggiare sui tetti della Rue d’Ulm – ma il percorso avrà una sola caratteristica: l’originalità. L’allievo potrà dunque seguire i corsi di matematica e greco, di sanscrito e fisica, di filosofia e arte, alla ricerca – insieme al suo maestro – di quella maturazione personale di temi, ricchezze, tradizioni familiari che porterà alla fine a leggere le più spregiudicate novità teoriche del proprio campo in una luce assolutamente unica, la sua.
L'idea è quella di ripetere il modello vincente di Cambridge e Oxford e di scalare rapidamente i ranking internazionali
Ed è qui il segreto di tutte le università di eccellenza, ma in particolare dell’Ens: per essere liberi davvero, per essere originali davvero occorre avere un maestro e non avere barriere disciplinari. Niente piani di studio, nessuna regola, solo la compagnia di quello sparring partner eccezionale che è un ricercatore in grado di tirar fuori, di e-ducare quella speciale angolazione che è singolare ma non individualistica e che ciascuno sviluppa in una compagnia guidata, se chi guida non opprime o plagia o calpesta. Gilbert K. Chesterton diceva che l’autorità vera è come un muro. Se dei bambini vogliono giocare a pallone vicino a un burrone, l’avere un muro li renderà più liberi di giocare con tutta la foga possibile, mentre se dovessero giocare senza muro, dovrebbero essere cauti e giocare con meno libertà. L’autorità vera, quella di chi è autorevole e non autoritario, dipende dall’essere totalmente determinati dal lasciare che l’altro esprima se stesso, non dal legare a sé attraverso accondiscendenza, servilismo e piaggeria. Ecco il segreto dell’École. Si sa che la libertà ha un aspetto negativo – l’evitare di essere plagiati – e uno positivo – aderire a qualche valore che ci rende noi stessi. Il grande appoggio di Stato aiuta il primo aspetto in modo decisivo. L’École non deve piegarsi alle leggi della competizione del mercato e, una volta entrati, gli studenti stessi godono di relativa tranquillità sul proprio futuro, aspetto non trascurabile per garantire indipendenza. L’essere affidati a un tutor guida custodisce e genera il secondo aspetto della libertà: sviluppare dentro quell’indipendenza il contenuto unico che ciascuno già ha in nuce, grazie alla propria storia, alla propria tradizione, ai propri ideali. Dei grandi nomi dell’École, infatti, colpisce soprattutto l’eterogeneità: basti pensare al cattolico Péguy e al marxista-esistenzialista Sartre, all’ebreo metafisico Bergson e al matematico surrealista Châtelet, al devoto Pasteur e al rivoluzionario Foucault. Il segreto sta in una concezione ricca di libertà. Le mura giacobine nascondono il cuore medievale. “L’École è un insieme di eccezioni, non di regole” mi dice il directeur, il fisico Marc Mezard, mentre in mia presenza compie l’ennesimo strappo alla regola per un allievo belga.
Di fatto l’università attuale, in tutto il mondo, è un incrocio di tre modelli diversi: quello medievale, basato sul rapporto forte con il maestro appena descritto e sull’idea di comunità; quello humboldtiano ottocentesco dell’università delle scienze che considera i professori principalmente come dei ricercatori che poi riversano il proprio sapere nelle teste degli studenti; infine, c’è il modello di mercato, l’università legata all’occupazione e funzionale a rendere gli studenti pronti per il mondo del lavoro. I tre modelli sono dappertutto mescolati fra di loro e nessuno può fare a meno sostanzialmente degli altri. Tuttavia, mentre la maggior parte delle università ha ormai quasi del tutto dimenticato il primo modello che rimane, spesso solo parzialmente, nei lavori di tesi di laurea (in Italia) e di dottorato, l’Ens ha trovato il modo di mantenere la centralità del primo modello, approfondendo come si è detto il rapporto tutor-allievo e confidando nella residenzialità per la formazione di una comunità.
Le mura giacobine nascondono il cuore medievale. "L'École è un insieme di eccezioni, non di regole", dice il directeur, il fisico Mezard
Certo, insieme alla promotion interna l’allievo seguirà i corsi magistrali di altre università, come la vicina Sorbonne che giace ai piedi della montagna del Quartier Latin, farà un anno all’estero, farà un tirocinio (ovviamente indeterminato quanto a luogo e durata). Farà tante cose che tutti gli studenti di tutto il mondo devono fare e, se non soccomberà all’unico rischio di queste istituzioni d’eccellenza – l’elitismo solipsista, la cattiva presunzione snob – alla fine avrà una doppia formazione e, in realtà, una doppia mentalità, quella dello studente della libertà negativa e quello dell’allievo della libertà positiva, quella del ricercatore humboldtiano e quella del sapiente medievale.
Di questa sapienza fa parte, come si è detto, l’interdisciplinarità totale. Che le materie siano separate tra loro da fossati insuperabili è una delle cattive manie della mentalità moderna. In realtà chiunque faccia ricerca ad alto livello teorico sa che le discipline si fondono man mano che si giunge al loro cuore, cioè alla scoperta di qualcosa di nuovo. In questi casi, infatti, c’è bisogno di una personalità a tutto tondo per cogliere quei segni che, soli, possono far avanzare la ricerca scientifica in qualsiasi campo. Al proposito, una volta che mi ero trovato a fare un intervento sull’abduzione, la logica dell’ipotesi scoperta da C.S. Peirce, a un gruppo di studiosi tra cui si distinguevano i premi Nobel Charles Townes, l’inventore del laser, John Mather, lo scopritore della radiazione cosmica di fondo, e il celebre antropologo Yves Coppens, lo scopritore dell’ominide Lucy, ero rimasto colpito dalle loro risposte a proposito degli elementi essenziali per la scoperta scientifica. Confermando le teorie di Peirce, i tre avevano indipendentemente risposto che i fattori fondamentali per una scoperta, in ordine di importanza, sono: il senso della bellezza; il dialogo, magari accanito fino alla discussione; le conoscenze scientifiche e gli strumenti tecnologici. Questi ultimi sono solo al terzo posto, mentre conoscenze che forse considereremmo di carattere estetico ed etico/retorico diventano più importanti. Per questo, quando la ricerca è ad alto livello, le barriere non servono. Tra le tante riforme dell’università italiana quella forse più necessaria alla ricerca, quella dei dottorati, non è mai andata in questa direzione. Libertà disciplinare e non barriere; maestri e non burocrati.
Passiamo al secondo capitolo. Come farà questa istituzione medieval-giacobina a resistere all’omologazione contemporanea, fatta di burocrazia, piani di studio, valutazioni interne ed esterne, di specializzazione e pensiero unico, di leggi di mercato e mercato del lavoro? In un certo senso, l’École è immune. Le mura di Rue d’Ulm e del nuovo campus di Boulevard Jourdan non avrebbero necessità di confrontarsi con tutto questo. Dalla fine del 700 a oggi l’École produce i suoi diplomi per tesi originalissime e prepara gli élèves a superare l’aggregation, l’esame di stato per diventare docenti delle superiori, cosa che i normaliens realizzano con scontate percentuali da primato. Non si vive, tuttavia, in un’istituzione che cerca l’originalità assoluta senza avere la percezione del mondo in cui ci si muove e delle sue regole. Come farà l’École a sopravvivere in un’epoca in cui i docenti delle superiori hanno perso il loro status, in Francia come in Italia – purtroppo, visto che non c’è mestiere più importante – e dove un osservatore o un valutatore straniero fa fatica a capire con quale gradi di istruzione coincida il celebre diplome? L’École è una graduate school, un’università o un istituto di ricerca per soli dottorandi? In realtà non è nulla di tutto questo. Basta andare sul sito dell’École per capire il problema: come si traduce diplome in inglese? Così nel 2012 il direttore dell’Ens insieme a quelli di altre 24 Écoles e istituti di ricerca hanno pensato la rivoluzione per il XXI secolo. Per mantenere l’eccezionalità, occorre saper giocare anche al gioco di tutti. Nasce così Paris Science et Lettres (Psl), un’università come tutte le altre, con il suo primo ciclo triennale e il secondo biennale, come vuole ogni buona normativa europea. L’idea è quella di ripetere il modello vincente delle celebri università inglesi di Oxford e Cambridge. Al posto dei college le Écoles, al posto della sigla generale dei paesini britannici la sigla Psl. I primi anni si svolgono nella nuova istituzione, i corsi magistrali nelle celebri Écoles, tra cui la nostra di Rue d’Ulm. Psl ha aperto i battenti nel 2014 e già vanta 22.000 studenti, un numero che nelle intenzioni dei rettori delle varie istituzioni fondatrici si avvicina a quello ideale che Psl vorrebbe mantenere anche per il futuro. In tre anni Psl ha già scalato rapidamente i ranking universitari e nelle intenzioni dei fondatori mira nei prossimi anni a entrare tra le primissime università del mondo e a essere la prima d’Europa, visto che, oltretutto, le celebri concorrenti d’oltremanica, Oxford e Cambridge, non sono più europee.
A livello mondiale, l'università ha accettato un modello culturale iper-analitico in tutti i settori. La risposta parigina
Qui si apre forse la fase più interessante del progetto, dal punto di vista culturale, anche se alcuni dei suoi stessi protagonisti non sembrano averla compresa fino in fondo ed esserne del tutto coscienti. In questo momento, oltre che sposare soprattutto il modello del mercato, a livello mondiale l’università ha anche accettato un modello culturale iper-analitico in tutti i settori. La libertà e l’interdisciplinarità dell’École sembrano davvero un’eccezione. E purtroppo, insieme al modello iper-analitico, si impone spesso un pensiero unico su molti temi, dalla scienza ai valori sociali, dalle impostazioni economiche alle nomenclature politiche. Come si è già avuto modo di notare su questo giornale, alcuni pensatori liberal hanno denunciato per esempio l’uniformità politica pro-democrats delle università americane. Altri, per esempio il normalien Giuseppe Longo dalle colonne del Foglio, hanno ammonito sul pensiero unico e totalitario della cultura dei big data o della biologia molecolare. E anche nella filosofia si assiste a un ripiegamento verso una koiné di stampo analitico che uniforma soprattutto lo stile la ricerca. Questo genere di pensiero ha contribuito ad allontanare la percezione e la stima delle persone comuni dalle accademie, recepite da un lato come luoghi necessari per raggiungere la laurea con la protezione sociale che essa comunque ancora garantisce, ma dall’altro come enti la cui ricerca, salvo in pochi casi legati alle tecnologie, appare inutile, contraddittoria e incomprensibile. Psl, grazie alla sua radice nell’Ens e nelle istituzioni sorelle, potrebbe rappresentare la grande svolta, se saprà usare l’inglese e la cultura anglosassone senza appiattirsi su di essa, se riuscirà a reinserire il rapporto con un maestro e la vera interdisciplinarità all’interno di istituzioni moderne, se potrà garantire ai 20.000 la stessa cura personalizzata che garantisce ai 2.000 di Ens. Se ci riuscirà, prepariamoci ad assistere a qualcosa di veramente nuovo, molto simile a quanto avvenne ottocento anni fa, qualche metro più in basso, sulle rive della Senna: la nascita dell’Università, la nascita di una cultura e di una mentalità finalmente europee nei cuori prima che nelle carte, nelle menti prima che nei conti.
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