Guida all'autodifesa individuale e collettiva dalle fake news
La rete abbatte le barriere alla conoscenza ed elimina i filtri all’ignoranza. Ma non serve un Ministro della Verità
Come difendersi dalle fake news? La diffusione delle bufale si sta imponendo come un tema di primaria importanza, anche alla luce delle sue conseguenze politiche. La facilità con cui circolano le informazioni false, fuorvianti o parziali non è una novità, ma vi è una crescente preoccupazione sul ruolo che i social network e, in generale, le tecnologie digitali possono avere nell’accelerarne la propagazione. La stessa piega che ha preso il dibattito sembra spingere l’opinione pubblica da un approccio entusiasta a uno tecnofobico. Se prima venivano magnificate le potenzialità della rete, grazie alla quale tutti hanno più facile accesso a un patrimonio infinito di conoscenze, adesso sembra prevalere la tendenza opposta: il timore, cioè, che dal diluvio di informazione possa derivare la delegittimazione del sapere tecnico. A nostro avviso, non era giustificato l’entusiasmo e non è condivisibile il rigetto: occorre, come sempre, avere un atteggiamento realista.
Bisogna, anzitutto, dare a internet quello che è di internet: l’informazione oggi è, in effetti, più facilmente disponibile e accessibile. Chiunque può esprimere il proprio punto di vista: nella misura in cui il pluralismo è un valore, la rete ci ha resi più ricchi. Contemporaneamente, questo sviluppo – di per sé positivo – implica anche che internet, più che una grande enciclopedia, appare come un immenso “speaker’s corner”: non solo i migliori hanno l’opportunità di salire sul podio e dire la propria, ma anche i peggiori, i più saputelli e i più privi di scrupoli. Se la rete, quindi, abbatte le barriere alla conoscenza, elimina anche i filtri all’ignoranza. Quasi tutti si concentrano sulla dimensione politica di questo fenomeno – Donald Trump è stato davvero eletto grazie a Twitter? – mentre a noi pare che vi siano anche altri aspetti, almeno altrettanto rilevanti. Lo stesso problema riguarda anche, e in forma più profonda, le conoscenze in campo economico, medico, giuridico, scientifico. Se tutti accettiamo pacificamente di essere un paese di 60 milioni di allenatori della nazionale di calcio, accettiamo con meno tranquillità l’idea di essere 60 milioni di economisti, costituzionalisti, esperti di vaccini o sismologi.
Una reazione istintiva è quella di invocare un “Ministero della Verità”, che ci dica quale è il sapere legittimo e quale no. Prima di farlo, dobbiamo prendere atto di un aspetto incomprimibile, che era vero ieri, lo è oggi e lo sarà domani. Più la comprensione dei fenomeni fisici e sociali progredisce, più la conoscenza diventa complessa e richiede investimenti in capitale umano per essere compresa. Internet, dunque, rende più semplice entrare in possesso dell’informazione, ma non può sostituirsi alla fatica del metabolizzarla. Come ha anche ricordato il Garante delle comunicazioni, Marcello Cardani, al termine della presentazione della relazione annuale, occorre un forte investimento nella “Digital literacy”, perché le regole non possono sostituire l’attivismo intellettuale, la capacità di ascolto dell’altro, la volontà di discutere punti di vista diversi.
La domanda empirica che dobbiamo porci è, allora, se la rete sia un amplificatore dell’effetto Dunning-Kruger (in virtù del quale persone con una conoscenza approssimativa di un qualunque tema si sentono in diritto di pontificare), o se invece sia uno strumento utile ad affinare le capacità di quanti sono disposti ad accostarsi al sapere tecnico con umiltà e sacrificio. A dispetto delle ovvie preoccupazioni, diverse indagini mandano segnali tranquillizzanti. Un lavoro condotto da William Dutton, Bianca Reisdorf, Elizabeth Dubois e Grant Blank e pubblicato tra i working paper del Quello Center della Michigan State University mostra che la tecnologia non ha esiti deterministici sul processo di formazione dell’opinione pubblica: “Oltre il 50 per cento degli utenti dice di usare ‘spesso’ o ‘molto spesso’ i motori di ricerca. Ma i risultati indicano che la mala informazione può ingannare alcuni utenti occasionalmente, ma la maggior parte (più dell’80 per cento) è abbastanza scettica dell’informazione ricevuta da voler verificare i fatti”. Un altro studio di Richard Fletcher e Rasmus Kleis Nielsen (entrambi del Reuters Institute for the Study of Journalism dell’università di Oxford) mostra che gli utenti più attivi dei social media tendono a esporsi consapevolmente a una maggiore diversità di punti di vista, anziché rimanere intrappolati in quelle che sono state chiamate “echo chamber”.
Se dal lato della “domanda” gli studi hanno iniziato a dirci qualche cosa, poco esplorato è quello dell’”offerta”. Le fake news esistono da anni in campo commerciale: per esempio tutti ricordiamo quel famoso comico che esaltava le virtù della “Biowasball”, oppure le false notizie messe a punto per proteggere i propri mercati o contratti di fornitura (come nel caso di alcune imprese russe nei confronti di quelle ucraine). La denigrazione e l’appropriazione di pregi possono avere effetti distruttivi, e non a caso sono considerate illecite e integrano condotte lesive della concorrenza. In campo politico la situazione è più complessa, non solo perché non esiste una disciplina di riferimento, ma perché essa non può esistere. Diventa pertanto cruciale il ruolo dei media tradizionali: mai come oggi è stato vero che il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza. Fortunatamente sotto questo profilo qualcosa si sta muovendo, pensiamo alla “News Integrity Initiative” della City University of New York, che ha già raccolto oltre 14 milioni di dollari per un progetto volto alla scuola di giornalismo dell’università. Perché è proprio l’offerta di una informazione di qualità il migliore antidoto agli effetti delle fake news. Tali evoluzioni paiono ancora lontane dalla realtà italiana, dove c’è scarsa cultura del fact checking. Pensiamo alla maggioranza dei talk show, dove raramente il conduttore interrompe l’ospite anche a fronte di palesi menzogne, impedendo così agli spettatori di farsi un’idea più precisa del reale stato delle cose.
Con una battuta, potremmo dire che la verità non esiste, ma le bugie sì: più che affermare l’una, dunque, il ruolo dei media è quello di smascherare le altre. A monte, è essenziale fornire alle persone gli strumenti non tanto per valutare la plausibilità di un pezzo di informazione (che spesso ha una dimensione tecnica irraggiungibile per i non specialisti), quanto per valutare l’affidabilità delle fonti di informazione. In questo, diventa sempre più chiaro che la gente non ha bisogno di protezione, ma di dotazione di capitale umano: e, dunque, la politica più importante di tutte sta nel garantire un’offerta educativa di livello (una buona scuola, diciamo).
Nulla di tutto questo, però, giustifica politiche che implichino forme di censura, controllo dell’informazione o anche solo di rilascio di un “bollino blu” da parte di autorità politiche; perché la storia insegna dove porta questa strada, ancorché lastricata dalle migliori intenzioni. Ancora meno sono accoglibili le richieste di quanti vorrebbero chiudere i rubinetti dell’informazione, nel timore che il popolino possa farne un cattivo uso. Vale la battuta di Terry Pratchett: “Dicono che poca conoscenza sia una cosa pericolosa, ma non lo è neppure la metà di quanto lo sia molta ignoranza”.
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