Evelyn Waugh in Brasile alla ricerca di Boa Vista, città onirica e irreale
Si viaggia perché c'è sempre una favola da inseguire
Nella savana non esiste il crepuscolo: il sole cala infuocato dietro l’orizzonte regalando al viandante cinque o dieci minuti di una gloriosa luce cremisi e oro, dopo di che fa buio. Nella foresta la notte si apre come un lento sbadiglio. I verdi diventano puri e intensi fino al punto di saturazione, e le mezze ombre, le schegge di luce riflessa o rifratta, scompaiono, lasciando solo profondità insondabili di puro colore. Poi l’oscurità avanza: le distanze divengono incalcolabili, gli ostacoli si staccano inaspettatamente dal fondo, e tutti i brusii, i fischiettii, i cicalecci della foresta notturna scoppiano sonoramente da ogni parte".
I brusii, i fischi, i cicalecci delle sue feste descrittive, scoppiano di continuo, tra le pagine di “Ninety-two days”, lungo resoconto di un viaggio datato 1932, anno medio di quel periodo tra il 1928 e il 1937 che Evelyn Waugh descriverà così: “In quei nove anni non ho mai avuto fissa dimora né possedimenti che non entrassero nel carrello di un portabagagli. Quel viaggio in Brasile mi sembrò un’ordalia, un’iniziazione alla virilità. Sono stato un giovane del mio tempo: si viaggiava perché ci veniva naturale farlo”. Non si conoscono le cause naturali che spinsero questo ventinovenne inglese lungamente indeciso tra la pittura e la scrittura, con un passato di spensierati bagordi pansessuali, sposato a un’omonima (“She-Evelyn ed He-Evelyn”, dicevano) ma presto separatosi, di tanto sbandierata e disdicevole mussolinofilia, a coprire il tratto selvaggio che correva tra Georgetown, Guyana, e lo stato brasiliano del Roraima, mettendosi in lotta con la natura, gli insetti, la furia degli elementi e l’imperturbabilità degli abitanti dei più sperduti avamposti. Però se ne conosce una artificiale: un racconto che gli venne fatto, di Boa Vista. E tanto gli bastò, perché se è vero che si viaggia in quanto, dice Waugh, fa parte della vita, si viaggia anche perché c’è sempre una favola ad accendere i nostri desideri di eterni bambini che soggiacciono all’incantesimo delle parole più che alle cose, al miraggio dell’illusione più che all’impoetica solidità del mondo. Così, una sera, a Georgetown, il loquace commissario di distretto Bain – un emaciato ex cercatore d’oro – gli narrò gli splendori della regione e soprattutto di quella città sfavillante, onirica. E ce lo accompagnò: un viaggio tra rozze canoe, treni gelidi, oscure lande di foresta, nugoli di zanzare malariche, traghetti a vapore, terre sabbiose, sconosciute destinazioni che si rivelano “tre baracche e un recinto”; e poi notti infinite ingannate con descrizioni variopinte, il cui picco salgariano fu il racconto di un cavallo – che Bain giurò d’aver visto – capace di nuotare sott’acqua. Quindi via, il mattino dopo, attraversando a cavallo macchie tropicali, tra fusti altissimi come colonne di un’architettura nuda e verticale e raggi di luce che penetrano come attraverso i buchi di un finimento, scoprendo che la vera vita delle foreste si svolge a trenta metri dal suolo, nelle folli adunate di pappagalli e scimmie urlatrici intorno a fiori enormi che solo s’intravedono; e i rumori: rane stridule, il muggito dell’uccello-mucca e quello della messa in moto di una motocicletta (in realtà il richiamo di un volatile senza nome), e l’esasperante ronzio dello scarabeo delle sei, attivo già dalle quattro. La foresta è nient’altro che un lungo festone verdeggiante e atemporale tra paesi desolati e umanità in attesa di nulla, spogliata e sparsa a vivere in capanne di lamiera al centro di radure deserte. All’orizzonte, sempre Boa Vista, Shangri La della dissipazione, luogo di boulevard e fontane, di milionari e ufficiali in guanti bianchi, città di feste e belle donne, in cui si preparano rivoluzioni e si compiono omicidi, di grandi transatlantici e aria salata, viva, raggiante – tutto per Boa Vista, baluginio meraviglioso! “I mille disagi del viaggio che avevo fatto per giungervi mi avevano fatto desiderare ancor più la sua dolce vita”. E dopo tremende traversate in compagnia di scorte sospette, dopo le quindici capanne di Surana, le piste di falasco secco, dopo stanchezza, polvere, insonnia, serpenti e nausea, eccola, Boa Vista: una manciata di edifici fatiscenti. Perché la verità è che nessuno va a Boa Vista, nessuno percorre le sue strade di fango indurito che si spengono in sentieri polverosi nelle quattro direzioni. Così non resta che andarsene, sopportando in silenzio la verità del viaggio: comincia come finisce – con un senso di amara irrealtà.