"Al ballo", dipinto di Léopold Schmutzler (1864-1941), collezione privata

Dal re Sole a Fitzgerald il romanzo delle feste senza felicita'

Fabiana Giacomotti

Vi guadagna, in fama e commerci, chi le organizza. Chi vi partecipa ha funzione ancillare. Nei grandi libri dell’Ottocento, e oltre, c’è sempre almeno un ballo in cui ci si rovina, ci si annoia, si fanno cose sbagliatissime

Di feste si può morire in senso proprio, come dimostrano gli ospiti di Eliogabalo soffocati da una nuvola di rose, Giovanni Borgia trafitto all’uscita del ricevimento di mamma Vannozza Cattanei in suo onore e la cronaca spicciola dei rave di oggi, ma anche in senso figurato, ed è la triste storia del ballo improvvisato da Madonna poche sere fa in Salento e subito coperto dal vituperio dei social che ormai nulla sembrano perdonarle, nemmeno una pizzica in piazza. D’accordo, c’è poco di più desolante che vedere una tardona mentre balla sventolando quello che, purtroppo, ormai sventola da solo anche senza salterelli e battimani, ma non ci sono dubbi che, se invece di Madonna, a sbracciarsi ci fossero state Cara Delevingne o Bella Hadid, nessuno avrebbe imbracciato l’arma di Facebook per spararle addosso o per mettersi a fare ancor più penosi distinguo fra balli regionali e orgogli nazionali. Il ballo può essere espressione tanto di civiltà quanto di selvaggeria, come diceva Jane Austen per bocca di mr Darcy e come in fondo tutti continuiamo a sospettare, ma è anche vero che il guizzo di una coscia tonica fa perdonare molte cose, compresa una danza sguaiata o una festa malriuscita, che pare un tema di moda anche in questa fine estate 2017, a dispetto di ogni genere di catastrofi occorse nel frattempo e di cui questo articolo, essendo di costume, non parla.

 

La triste storia del ballo improvvisato
da Madonna in Salento
e subito coperto
dal vituperio dei social

Talvolta, la catastrofe di portata mondiale può riguardare addirittura la festa stessa, vedi il caso del Fyre Festival di Great Exuma, alle Bahamas, che avrebbe dovuto inaugurare questa stagione relegando il Coachella allo status di cafonissima comparsa (pubblicizzava Bella Hadid, naturalmente, insieme con un gruppetto di amiche danzanti), e che invece si è rivelato il più colossale fiasco dell’anno. Il suo promotore, un ventiseienne che risponde al nome di Billy McFarland e che solo nell’America di Trump avrebbe potuto essere preso sul serio, è stato arrestato qualche settimana fa per frode dopo aver venduto qualche centinaio di pacchetti musica-più-vacanza-più –weekend-di-festa a 12 mila dollari l’uno, andati tutti per pagare il costo delle modelle e per un manipolo di tende fradicie, issate alla bell’e meglio sull’arenile, dove i pochi iscritti che non sono riusciti a ripartire subito con il volo charter messo a disposizione in luogo dell’aereo privato pubblicizzato, hanno dovuto soggiornare per una notte, intontendosi di vodka dello sponsor per dimenticare. McFarland rischia vent’anni di galera, e l’esimio Graydon Carter di Vanity Fair sul numero di luglio gli ha riservato un reportage di otto pagine che avrà fatto felici le major musicali alle quali la testata dedica un numero all’anno, dimostrando ancora una volta che le feste sono una leva di potere e di relazione insostituibile, nella quale il divertimento di chi vi partecipa è del tutto irrilevante e l’interesse di chi organizza fondamentale.

 

Ne aveva scritto esattamente cent’anni fa e sempre su “Vanity Fair” una Dorothy Parker agli inizi ma già inviperita contro gli uomini, mettendo alla berlina le “anime sensibili / che organizzano balli mascherati / per vestirsi come nelle “notti d’oriente” / e offrono tè nei loro monolocali / dove la gente si siede sui cuscini / e vorrebbe non trovarsi lì”. L’ispirazione per quei ritrovi newyorkesi certo un po’ forzati nei trenta metri quadri di uno “studio” arrivava da lontano, e più precisamente dalla favolosa festa “Delle mille e due notti” che, sei anni prima, nel 1911, il couturier Paul Poiret aveva organizzato per lanciare il suo primo profumo, “Nuit persane”, offrendone una boccetta alle signore del tout Paris intervenute in vesti da odalisca, esattamente come avviene oggi per qualunque maison di moda provvista di un budget adeguato e di un po’ di gusto.

 

Dorothy Parker
metteva alla berlina
le "anime sensibili /
che organizzano balli mascherati / per vestirsi come nelle notti d'oriente"

L’idea che lo scopo della festa sia il divertimento di chi vi partecipa è del tutto bislacca, e basterebbe andare alle origini del sostantivo, il greco “estia” che si collega al sanscrito di “vastya” cioè casa, abitazione, da cui deriva anche la dea della casa, Vesta, con il corredo delle sue devotissime, le vestali, per capire che ogni attività legata alla festa è endogena e non esogena. Vi guadagna (in fama, onori, commercio, comunicazione, metteteci la ragione che volete) chi organizza; chi vi partecipa ha funzione ancillare. Se si diverte, meglio per lui. Nella festa, il divertimento è un derivato, mai lo scopo che non a caso, per millenni, è stato o religioso o politico, come per l’appunto la festa organizzata nel 1671 dal principe di Condé, frondista di spicco, per rabbonire Luigi XIV e in cui si tolse la vita l’intendente Vatel che si citava nelle prime righe per non aver potuto servire ai tremila ospiti del suo signore il pesce fresco promesso.

 

Fin dalle origini, la festa si è anche rivelata materia di pubblicazione e leva narrativa impareggiabile. Per esempio, è dai tempi del Mercure Galant, e siamo negli stessi anni del ricevimento di cui sopra e che oggi si definirebbe “evento”, che certa stampa vive di feste. Lo fa perfino oggi che stenta a sopravvivere, e lo fa anzi con maggiore accanimento e minore selezione, sperando di trovare nuovi lettori fra le dame plastificate e allampanate di sconosciuti salotti e gli appassionati di tronisti e malandrine fresche di prima comparsata televisiva, in un circolo di pseudo-notorietà che si alimenta e rimbalza da un media all’altro fra candeline, paillettes e photoshop. Ma è nel più complesso ordine narrativo del romanzo che la festa, apparato di rappresentanza di per sé, riesce a dare il meglio: nessun altro luogo, nessun altro topos offre infatti a un autore il destro per portare in scena tutti i personaggi principali di un intreccio e tratteggiare il carattere di ciascuno attraverso la relazione con gli altri. Della battuta di mr Darcy al ballo di sir William Lucas abbiamo già scritto (volume I capitolo VI della prima edizione di “Orgoglio e pregiudizio”), ma sfido chiunque a trovare un solo romanzo ottocentesco, e in buona parte anche del secolo successivo, in cui non compaiano almeno un ballo e una festa, sofisticata o popolare, dove tutto accade e tutto si nasconde, comprese le paure e le ossessioni dell’autore stesso: alle feste di Balzac, ossessionato dal denaro, ci si rovina con una certa frequenza; in quelle di Flaubert, di Jane Austen, di Edith Wharton, ci si innamora e si fanno figuracce; in quelle di Henry James si cercano mariti e mogli doviziose; in quelle di Moravia ci si annoia, in quelle di Sagan e di Irène Nemirovsky si covano vendette, nello specifico contro la propria madre. Agli “eventi” di Jack London ci si picchia, in quelli di Francis Scott Fitzgerald si dicono e si fanno cose sbagliatissime tra i fumi dell’alcol; chez Hemingway si fanno tutte le cose precedenti in modo sbrigativo.

 

Nella festa,
il divertimento
è un derivato,
mai lo scopo, che non
a caso, per millenni,
è stato o religioso
o politico

Essendo tramontati i tempi delle sontuosissime feste alle quali i romanzieri potevano ispirarsi, Poiret ha fatto scuola e le feste più interessanti recano il marchio dello sponsor scritto in calce su ogni scatto e ogni post, gli echi di quei tempi andati ma abbastanza recenti da essere stati fissati su pellicola sono diventati libri a sé. Da dieci anni, il libro dedicato al celeberrimo Black and White Ball organizzato nel 1966 da Truman Capote al Plaza, ufficialmente in onore dell’editrice della Washington Post, Katharine Graham, in realtà per dar mostra del proprio potere autoriale, figura fra i bestseller di Amazon: io, come tanti altri che fanno il mio mestiere, ne possiedo una copia, ormai come direbbe Capote del tutto “battered”, cioè consunta e piena di post it, segnalibri e sottolineature in corrispondenza delle descrizioni degli abiti di C. Z. Guest e Babe Paley e delle sigarette di Slim Keith. Come ovvio, al libro sul “party del secolo” ne sono seguiti molti altri, tutti costosissimi, illustratissimi, intrasportabili. Guida il genere, va da sé, la casa editrice Condé Nast, che al mondo ha dato agli inizi del Novecento il primo periodico fondato allo scopo di raccontare feste e balli e in generale “i momenti celebrativi dell’esistenza”, cioè Vogue, ma gli appassionati possono trovare ormai testi circostanziati sulle feste di Ludovico il Moro, dei Medici (queste anche nell’economica edizione Bur), della corte di Versailles (un’infinità, il must resta l’edizione Gallimard di “Les fetes de Versailles” di André Félibien, da cui si possono apprendere molte nozioni sull’origine dell’attribuzione dell’epiteto di “Re Sole” a Luigi XIV a partire da un balletto e da un paio di scarpe. Da tutte queste letture si possono trarre utili consigli d’uso delle feste. Nessuno di questi postula la felicità.