Caro Maestro Bortolotto
I novant’anni di Mario, sempre uno spettacolo. Bach al pianoforte, i dattiloscritti sacri
Un giorno Ruggero Guarini, suo amico e ammiratore, lo porta a cena da Checco, quel talento letterario e genio della storia e critica musicale che è Mario Bortolotto. Seduttore e arcigno maestro, ma detesta il titolo, sguardo dolce e rapace, occhi ridenti e chiari in una luce di insofferente ironia, pochi giorni dopo si presenta con il primo di molti articoli, il tema era di musica francese, e leggerlo fu l’inizio di un lungo, intenso piacere pieno di tormenti, dunque il massimo del godimento, prossimo al vizio. Il dattiloscritto fu da subito considerato sacro. Passarlo in tipografia, diciamo così che è più bello, implicava per legge redazionale rispettare tutto maniacalmente, verificare qualcosa delle correzioni a mano nella bozza, per telefono o di persona, e quando il giro di frase vorticava in arcaismi o decadentismi sapienti, nella sintassi e nella punteggiatura, si potrebbe dire nel fraseggio, bisognava astenersi da qualunque vocazione normalizzatrice, bisognava leggere, cercare di capire, prendere tempo e respiro, talvolta rassegnarsi, seguire le sfumature, scoprire stupefatti cose nuove e accettare tanto dono geroglifico come fosse la stele di Rosetta. D’altra parte quella dei “Fogli multicolori”, dal titolo della bella raccolta in blu curata dal suo caro amico Roberto Calasso per Adelphi, non era prosa d’arte, era partitura, e l’effetto mentale dei testi era dantesco, materia musicale, purgatoriale, quella cosa che s’ascolta e non s’intende, come dice il Poeta. Che onore un collaboratore carismatico, e unico, per un piccolo giornale curioso e tenace.
Bortolotto compie novant’anni, e sarà sempre uno spettacolo. Una volta cercava il caldo d’inverno in una finca brasiliana fondata come scuola da un amico, che a un certo punto mi scrisse a New York, per rassicurarmi: “Il professore sta benissimo ed è sdraiato sotto un vasto albero di cocco”. Ma lo si poteva incontrare a casa sua, a San Francesco a Ripa, sempre edonista amante del calore, con una specie di riscaldamento acceso anche d’estate, di nuovo uno spettacolo: suonava Bach al piano, e cercava di spiegare il concetto più incomprensibile del mondo, la enarmonia, con un secco insuccesso che non dipendeva da lui. D’altra parte ha sempre rifiutato di considerare la musica un linguaggio, bestemmia pura per le sue orecchie. A un concerto di Krystian Zimerman a Santa Cecilia se ne uscì con l’atto critico puro, sussurrando: “Ascolta che suoni meravigliosi”.
Il suo vero estro, qualcosa di simile al prodigio, è infatti la reticenza. Sa tutto e si limita. Può scrivere qualunque cosa e con superba leggerezza lascia molto in sospeso, e ha detto tutto, come Don Chisciotte. Si aggira tra le oscurità di Wagner senza pila elettrica, le moltiplica e le individua con esattezza algebrica. Di Strauss si vieta altra caratterizzazione che questa, in fondo: non sbaglia mai.
I testi di Bortolotto non sono a programma, hanno niente di didascalico, non stabiliscono classifiche, non aiutano mai la sete estetica inestinguibile del lettore che desidera emozioni primarie e spiegazioni, cercano in modo estremamente complicato l’iperbole del massimamente semplice, per questo hanno l’aria di riflettere una dottrina segreta, respirano l’esoterismo dei circoli amicali da lui frequentati in anni lontani, ma si risolvono in un feroce ed esclusivo attaccamento alla partitura e all’esecuzione. Insomma sono saggi di un musicista che va letto senza la pretesa di interpretarlo o intenderlo oltre la lettera. Novant’anni di sprezzatura e di tenera convivialità musicale sono qualcosa che intimidisce e rallegra. Auguri, Mario.
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