Ritratto del critico da giovane
Mario Bortolotto compie novant’anni. Le passioni musicali e non solo, la curiosità culturale, le idiosincrasie, la sprezzatura e le ironie di un maestro amico del Foglio
Ripubblichiamo in questa pagina ampi stralci di un’intervista a Mario Bortolotto realizzata per il settimanale L’Europeo da Ludovica Ripa di Meana il 23 aprile 1983
“I libri che faccio”, dice Mario Bortolotto, “preferirei dimenticarli. Ma non è facile, perché molte cose che ho messo nei miei libri rimangono in circolazione, come idee stratificate, dentro di me. Vorrei, però, che almeno il modo in cui ho formulato quelle idee si dissipasse, per avere la mente libera da schemi formali, e quindi sempre pronta e disponibile a cogliere il nuovo. “Adesso, per esempio, la mia mente è lontana da quegli autori. Mi interessa un compositore russo, Nikolaj Roslavec, che lavorò dagli inizi del secolo fino agli anni Venti. Roslavec è stato molto malmenato nel suo paese. Dopo il 1920 non scrisse più, e pare sia morto intorno al 1944. I suoi testi musicali appartengono stilisticamente alle prime due decadi di questo secolo, e hanno un fascino addirittura minatorio. Sembrano i diari di un veggente. E’, però, estremamente arduo reperirle. Ne circolano rare fotocopie. So per certo di una sola esecuzione, un anno fa, a Parigi”. (…)
C’è continuità, allora, tra la cultura di ieri e il mondo di oggi?
“Nonostante l’assidua frequentazione di scrittori di testi tragici, disperati, di commentatori di apocalisse, continuo a non essere un pessimista. Forse perché ho sempre avuto abbastanza fantasia e curiosità per frugare nel mondo e nelle idee di quelli più giovani di me. E oggi, malgrado le infinite cose che vanno male, ho l’impressione che si stia formando una cultura molto elevata, molto scelta. Per oltre trent’anni siamo stati sprofondati nella più plumbea delle paludi ideologiche. Ora si sta delineando qualcosa di nuovo. Alcuni giovani (storici, musicisti, scrittori, filosofi) vengono da altri pianeti (come Franco Cardini, studioso del Medioevo); ma molti escono proprio da quella stessa palude. Il filosofo Massimo Cacciari, per esempio: esce dalla palude e ha ancora addosso alghe, chiocciole, sassolini, rospi morti, però porta tutto con grande disinvoltura, e rivela un grande ingegno. Oppure si pensi a uno come Claudio Magris, che scrive molto, e sempre cose molto acute. E ancora: si pensi al ruolo decisivo che ha avuto nel contesto culturale italiano la crescita e la definizione di una casa editrice come l’Adelphi, e si pensi al fatto che a scegliere i libri di questa casa ci sia un uomo di cultura veramente babelica come Roberto Galasso. Alcuni di questi giovani stanno incamminandosi a diventare degli onni-scienti. I maestri che abbiamo avuto sono pochissimi, ma tre almeno sono indispensabili: Gianfranco Contini, Mario Praz e Giovanni Macchia, tre onniscienti che si potrebbero pensare come gli ultimi rappresentanti di un mondo di letterati destinato a scomparire e che invece hanno degli eredi”.
Si tratta di un ritorno alla tradizione, o di un ripiegamento rispetto alle illusioni estremistiche della contestazione?
“Per vent’anni sembrava che nessuno sapesse più niente, o quasi; che si facesse soltanto della propaganda o che si andasse soltanto a ballare; che tutto fosse sociologia o che si inforcassero soltanto delle roboanti motociclette. Oggi si ha l’impressione che molta gente studi di nuovo, e porti mattoni alla costruzione di una nuova cittadella della cultura. O, se si preferisce, di una nuova torre d’avorio. Anche se non c’è, è bene pensarci a questa torre d’avorio, tenendola sempre in qualche modo presente nella nostra fatica. D’altronde, non ho mai capito perché questa metafora, nel passato, sia così dispiaciuta agli esponenti della cultura ‘impegnata’. L’avorio, in fin dei conti, è un materiale tra i più nobili, e nella torre si respira bene e non si sente l’odore della canaglia. E, poi, di lassù si può vedere molto lontano”.
Ma un critico può vivere nella torre d’avorio?
“Lei cosa pensa che sia un critico?! Provi a pensare al critico come figura platonica, ideale: un critico così sarebbe una persona che ha letto tutti i libri del mondo. Però, non è esattamente così. Il critico ideale non ha letto tutti i libri del mondo semplicemente perché, a un certo punto, il suo fiuto si è così affinato nel tempo da consentirgli di scartare in partenza molti libri di cui sa già con sicurezza che è proprio inutile la lettura. Il critico ideale, quindi, è uno che ha letto tutti i libri che contano, tutti i libri importanti. Lo diceva anche Stéphane Mallarmé: ‘J’ai lu tous les li-vres’ (Io ho letto tutti i libri). Ma quello stesso critico dopo che li ha letti e riletti e li ha abbondantemente sottolineati, e li ha anche catalogati, diventa un bibliotecario che dorme nel suo studio come nel cuore di una gigantesca piramide. Jorge Luis Borges ha descritto gli scaffali circolari della sua biblioteca immaginaria, così simile alla biblioteca che ad Alessandria d’Egitto, prima che il califfo la desse alle fiamme, conteneva tutti i libri del mondo antico. ‘Kalkénteroi’ si chiamavano allora i grandi critici, con una parola greca che significa ‘dalle viscere di bronzo’, perché quelle viscere si pietrificavano per l’obbligo che i loro titolari avevano di stare sempre seduti in lettura”.
E lei appartiene alla ristretta schiera dei “Kalkénteroi”?
“Personalmente, sia perché non vorrei che mi si indurissero le viscere, sia perché non ritengo che le opere si possano spiegare soltanto facendo riferimento a opere preesistenti, sceglierei di essere prima che un critico, un viandante. Spesso, come una specie di fascinazione, mi torna alla mente il titolo ‘Da paesi e popoli lontani’ che Robert Schumann dette a uno dei pezzi delle sue ‘Scene infantili’.
Ma che c’entrano il viaggio e la musica?
“Viaggiare è soprattutto importante per la musica che si ascolta e non si legge. Tutte le musiche orientali, per esempio, non sono scritte, e si tramandano di maestro in allievo, proprio perché esistono soltanto nel momento in cui vengono eseguite. Passare un intero pomeriggio in un tempio shinto in Giappone (come è capitato a me che sono rimasto assorto lì dentro fino a sera, credendo che non fosse trascorsa neppure un’ora) mentre si diffonde sommesso il canto dei monaci, oppure ascoltare dei musici indiani che sotto un immenso albero del pane improvvisano melodie sui loro strumenti, sono esperienze musicali sconvolgenti che non avremmo mai potuto raggiungere se fossimo rimasti nel comfort della nostra casa. Perché se anche le trascrizioni su disco di quelle musiche originali fossero perfette (cosa, fra l’altro, che raramente accade), ci verrebbe a mancare la particolare emozione che nasce dall’ascoltare quelle musiche nell’ambiente che le ha prodotte”. (…) “Ci sono, per esempio, compositori immani che sento abbastanza lontani, e mi lasciano talvolta indifferente: Modest Petrovic Musorgskij, Giuseppe Verdi, Anton Bruckner, e tanti altri. Da Gioacchino Rossini sono radicalmente lontano. E, per osare l’inosabile, sono anche lontano da una larga parte dell’opera di Ludwig van Beethoven”.
E di Mozart che ne pensa?
“Chi è che non sente affinità per Mozart? Direi meglio: ognuno spera di essergli in qualche modo affine. Lui, comunque, è adorabile, e fa parte della mia costellazione cardiaca. Beethoven no. Diceva Claude Debussy: ‘Tutto andava così bene fino a Mozart…’. Poi è arrivato lui, Beethoven, con la sua tensione eroica. Ma cosa può dirci oggi? Oggi non sappiamo neppure cosa significhi l’eroismo. Gli eroi sono antipatici, e procurano danni irreparabili”.
Ecco affiorare le sue proverbiali idiosincrasie. Potrebbe tentarne un catalogo, così di getto…
“Non mi piace la politica. Non mi piacciono gli uomini politici in generale, senza eccezioni. Non mi piacciono gli interventi per le opere di bene, i proclami, i manifesti, firmati o non firmati che siano, le marce, le passeggiate per la pace. Non mi piace il dolciastro, l’inautentico, il sentimento esibito. Non mi piace il colore meridionale, la sceneggiata napoletana, la gente che si strappa i capelli davanti al cadavere di una centenaria che da almeno 25 anni dava solo fastidio ai familiari. Non mi piace il turpiloquio, caro alle signore mondane che evidentemente fremevano dalla vo-glia di usare il gergo dei furieri…”.
E cosa le piace?
“Mi piace… Ah, dimenticavo: una delle cose che odio di più al mondo è la persona di Bertolt Brecht, nonostante abbia scritto alcune poesie (poche, ma bellissime) di grande qualità nell’ultimo periodo della sua vita. Il fatto che Brecht abbia introdotto per certe manifestazioni della cultura l’aggettivo ‘culinario’, o ‘gastronomico’, in senso spregiativo, è segno di cattiva digestione, di cattivo palato, e che egli non ha ricevuto dai vini di Francia, né dalle salse di Cina, quel contributo, me lo lasci dire, culturale che abbiamo ricevuto noi. Io preferisco un pranzo cinese a una delle sue orripilanti commedie. Noi siamo quello che mangiamo, oltre quello che ascoltiamo. Il cibo è da sempre una metafora della cultura. “Messo t’ho innanzi: o mai per te ti ciba”, dice Dante. “Quel cibo che solum è mio”, scrive Niccolò Machiavelli. Sono persone che mangiavano molto bene, almeno quando potevano. Le culture, infatti, si devono assorbire con tutti i sensi, proprio perché sono un elemento vitale. Non si legge, o si ascolta musica, per istruirsi. Si legge, o si ascolta musica, per vivere”.
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