Tempi duri per la libertà
Siamo ormai di fronte allo sfinimento di un certo spirito moderno che si trova sempre più esposto al rischio di trasformare la politica in religione. L’equivoco sulla laicità
Il dispiegarsi su scala globale del terrorismo islamista potrebbe far pensare il contrario, ma anche le religioni sono oggi sfidate soprattutto dalla pluralità. Le loro lingue, quale più quale meno, si trovano tutte a dover fare i conti sia con dialetti interni, sia con diversità linguistiche vere e proprie che le differenziano l’una dall’altra, accentuando in tutte (così almeno si spera) la consapevolezza della distanza che le separa dalla presunta lingua di Dio. Un Dio che parli, direbbe Borges, “deve dire solo una parola, e in quella parola la pienezza. Nessuna voce articolata da lui può essere inferiore all’universo o minore della somma del tempo. Ombre e simulacri di quella voce che equivale a un linguaggio, sono le ambiziose e povere voci umane tutto, mondo, universo”.
Come ha mostrato Maurice Olender, nel suo libro Le lingue del paradiso, possiamo anche arrovellarci nello studio delle lingue più antiche, al fine di ritrovare, grazie alla filologia, la trasparenza dell’inizio, il momento in cui il rapporto tra Dio, l’uomo e le forze della natura non si era ancora appannato. La cultura europea del Sette-Ottocento lo fece in modo mirabile. Ma di certo non troveremo mai la lingua di Dio. D’altra parte, per dirla con Olender, “Che lingua parlano, nel giardino del Paradiso, Adamo, Eva, Dio e il Serpente? Sarà l’ebraico, il fiammingo, il francese o lo svedese? L’Eden, bagnato da un fiume che si getta in mare per quattro bracci, si trova a ovest o a est, dalla parte dell’Eufrate o sulle rive del Gange? La gara intrapresa da teologi, filosofi, e filologi, per stabilire quale lingua si parlasse in Paradiso e quali potessero essere i contorni della sua favolosa geografia, si sviluppò lungo innumerevoli diramazioni di cui non abbiamo finito di esplorare i sinuosi meandri”.
L’ironia di questo brano ci dice indubbiamente la distanza che separa il nostro modo di guardare la questione rispetto a coloro che discutevano se Dio avesse dettato direttamente a Mosè, parola per parola, le tavole della legge o le avesse semplicemente ispirate. Ferma restando la differenza radicale tra la forza creatrice della parola divina e le povere parole umane, che al massimo possono dare un nome alle cose, non certo crearle, sta di fatto che oggi, almeno all’interno della tradizione ebraica, quando si parla della parola di Dio si pensa prevalentemente a una parola divinamente ispirata, ma scritta da uomini, destinata a farsi storia, e quindi recante in sé anche i tratti dell’umana precarietà. E forse è per questo che il Dio innominabile e impronunciabile degli ebrei aveva così tanto bisogno di un Mediatore, di un Messia, che si facesse carne e venisse a parlare la lingua degli uomini.
Con l’avvento del Messia e della sua chiesa, il linguaggio di Dio si storicizza, si apre, in un certo senso si svuota: la famosa Kenosis di cui parla l’apostolo Paolo. In questo svuotarsi, in questo offrirsi totale da parte di Dio al mondo, sta il riscatto di tutti gli uomini. Non ci saranno più ebrei, né greci, ma soltanto la pluralità della grande famiglia umana. Tutte le lingue umane sono come legittimate, ciascuna nella propria specificità, in attesa di quella Pentecoste, che non significherà il ritorno all’uniformità di una “sola lingua”, quella parlata prima del peccato di Babele, narrato in Genesi 11, bensì la semplice trasparenza di tutte le lingue, l’una all’altra, nello spirito di Dio. “La folla si radunò e rimase sbigottita, perché ciascuno li sentiva parlare nella propria lingua”, si legge al capitolo 2 degli Atti degli Apostoli. L’affermazione della pluralità degli uomini e delle lingue sembra essere dunque uno degli esiti decisivi della tradizione ebraico-cristiana.
Ciò non significa, ovviamente, che all’interno di questa tradizione non ci sia più posto per dogmi o “verità inconcusse”. La chiesa cattolica, per fare un esempio, continua pur sempre a pensare se stessa come custode dello spirito e delle verità di Dio. La fedeltà a Dio è più importante della fedeltà agli uomini e al mondo, rispetto al quale essa dovrebbe essere soprattutto segno di contraddizione. Ma è pur vero che, specialmente a partire dal il Concilio Vaticano II, la chiesa incomincia a guardare il mondo con occhio diverso, certamente non più come si guarda un “nemico”.
Nella Gaudium et Spes, la costituzione conciliare sulla chiesa nel mondo contemporaneo, si parla non a caso, non soltanto dell’aiuto che la chiesa intende offrire agli individui e alla società (nn. 41, 42, 43), ma anche dell’aiuto che la chiesa riceve dal mondo contemporaneo (n. 44); un tema, quest’ultimo, che indica indubbiamente un allargamento di prospettiva circa la mondanità-non mondanità della chiesa. Prima del Concilio non era così scontato che la chiesa potesse anche “ricevere” qualcosa dal mondo. Oggi la chiesa sente invece di doversi chinare sul mondo e di dover addirittura “imparare” dal mondo, ma non per diventare una potenza mondana, bensì semplicemente per offrire a tutti il suo messaggio di salvezza. Anche questa apertura al mondo da parte della chiesa trae insomma tutta la sua forza dalla parola di Gesù Cristo. “La forza che la chiesa riesce a immettere nella società umana contemporanea”, viene detto espressamente, “consiste in quella fede e carità portate ad efficacia di vita, e non esercitando con mezzi puramente umani un qualche dominio esteriore” (n. 42). Di qui l’esortazione ai cristiani a “non trascurare i propri doveri terreni” , in vista della futura città di Dio, né a immergersi “negli affari della terra, come se questi fossero estranei del tutto alla vita religiosa”, ridotta per lo più a “atti di culto” e ad “alcuni doveri morali” (n. 43).
La verità cristiana, in altre parole, non è una gabbia ideologica, né uno strumento di dominio, ma un dono fatto da Dio a tutti gli uomini di buona volontà; un dono capace di arricchirsi, di imparare, da ciò che le società umane hanno costruito nei secoli. Come si dice in Gaudium et Spes, “Essa (la chiesa) sente con gratitudine di ricevere, nella sua comunità non meno che nei suoi figli singoli, vari aiuti dagli uomini di qualsiasi grado e condizione. Chiunque promuove la comunità umana nell’ordine della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale, come pure della politica, sia nazionale che internazionale, porta anche non poco aiuto, secondo il disegno di Dio, alla comunità della Chiesa, nella misura in cui questa dipende da fattori esterni. Anzi, la Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino a motivo della opposizione di quanti la avversano o la perseguitano” (n. 44).
Se ci pensiamo bene, in questo brano non si fa altro che portare a maggiore consapevolezza ciò che San Paolo aveva indicato come metodo del dialogo tra cristiani e mondo: “Provate tutto e trattenete ciò che è buono”. L’incontro con l’altro o con una cultura “altra”, come vado dicendo ormai da anni, è sempre in primo luogo un’avventura con noi stessi, con la cultura che ci è propria. La verità cristiana, pur con tutte le inadeguatezze e purtroppo anche le violenze che in suo nome sono state perpetrate, costituisce da oltre venti secoli uno degli esempi più riusciti di questa capacità di imparare dall’altro senza rinunciare a se stessi. In virtù della trascendenza che la costituisce, la verità cristiana è un segno di contraddizione per ogni realtà sociale o individuale. Di fronte al Dio di Abramo e di Gesù Cristo, nessun ordine del mondo, se così si può dire, è più lo stesso, nessun uomo e nessuna cultura sono più “totalmente altri”. Come aveva ben capito Hegel, l’occidente, proprio in virtù del principio cristiano del “compimento”, non conosce un “esterno assoluto”; è strutturalmente aperto, pronto a imparare da tutti, ma fermo nel suo principio costitutivo. “L’uomo è la via della chiesa”, dirà San Giovanni Paolo II nella Centesimusannus. “La chiesa pertanto, riaffermando costantemente la trascendente dignità della persona, ha come suo metodo il rispetto della libertà” (n. 46). “Ognuno è immensamente sacro e merita il nostro affetto e la nostra dedizione”, si legge oggi nella EvangeliiGaudium (n. 274) di papa Francesco.
Mi sembrano segnali eloquente di quanto la chiesa abbia saputo imparare dalla modernità. E’ più importante il rispetto della dignità e della libertà dell’uomo, fosse anche erronea, che la verità di Dio. La quale non viene per questo sminuita, bensì esaltata dalla consapevolezza che il rispetto della libertà di tutti è ormai il solo “metodo” per affermarla.
Da un punto di vista socio-culturale, questa centralità dalla persona umana porta con sé una serie di conseguenze molto importanti, prima fra tutte la consapevolezza che il pluralismo è un valore fondamentale, non soltanto per la politica, ma anche per la religione. Il terrorismo di marca islamista non ha certamente contribuito ad alleggerire il clima da scontro delle civiltà che da più di una ventina d’anni tiene banco nel dibattito pubblico internazionale. Lo stesso dicasi per i fenomeni migratori di questi ultimi anni che stanno mettendo gran parte dei paesi occidentali sulla difensiva, rinfocolando al loro interno pericolose rivendicazioni d’identità esclusiva. Facile dunque che, persino nei paesi occidentali, possa avere la meglio il pregiudizio secondo il quale il pluralismo rappresenterebbe, in quanto tale, un pericolo per la religione, per la stabilità della vita individuale, delle relazioni sociali e delle istituzioni politiche. Lo può diventare, certo, e di fatto forse lo è diventato. Ma la frammentazione soggettivistica e relativistica che oggi riscontriamo nel nostro mondo occidentale non va considerata come una sorta di esito necessario del pluralismo, quasi che il pluralismo distrugga qualsiasi elemento comune a tutti e qualsiasi universalità. La contingenza del mondo nel quale viviamo fa del pluralismo una sorta di condizione imprescindibile. Questo sembra aver capito la chiesa cattolica, grazie al contributo della modernità liberale. Il pluralismo non significa che l’universale non abbia più diritto di cittadinanza; significa semplicemente che non è più consentito nemmeno a ciò che è universale di diventare vincolante per tutti, contro la volontà dei diretti interessati. In fondo è questo uno dei principi basilari della laicità e della liberalità delle nostre istituzioni politiche.
La moderna “religione della libertà”, per dirla con le parole di Benedetto Croce, suona forse un po’ enfatica, ma rende bene l’idea di che cosa dovrebbe essere un’organizzazione laica, aperta della vita civile. Essa ci dice che nessuna religione può pretendere di violare la coscienza e quindi la libertà degli individui e, nel contempo, che non è consentito a nessuno limitare la libertà religiosa, magari in nome della laicità dello stato. A questo proposito, un po’ come ai tempi in cui Croce scriveva le sue pagine famose sulla “religione della libertà”, anche oggi l’immagine che la società e la cultura europea danno di sé è piuttosto deludente. Non abbiamo più davanti a noi la barbarie del totalitarismo, ma siamo comunque alle prese con uno spirito che si mostra sempre più incapace di conciliare l’ideale della libertà con il dovere, l’ideale della tolleranza con il rispetto di sé e dell’altro. Di fronte agli assalti che la libertà subiva da parte dell’irrazionalismo del suo tempo, Benedetto Croce riteneva che fosse necessaria la “formazione di una nuova fede religiosa dell’umanità e dei popoli civili” e si appellava per questo al “fervore dell’amore”, non alla “sacralità” dello stato o a “una concezione ‘governativa’ della morale”. Noi ci chiudiamo invece nel nostro individualismo e pensiamo di tutelare la nostra libertà, rivendicando magari che la correttezza politica diventi la nuova religione di stato.
Tempi duri per la libertà, così come per la libertà religiosa e per la laicità delle nostre istituzioni. Siamo di fronte allo sfinimento di certo spirito moderno, il quale, partito all’insegna della libertà, dell’autonomia e dell’emancipazione dai cosiddetti pregiudizi religiosi, si trova ormai sempre più esposto al rischio di trasformare la politica in religione. Esattamente quanto la crociana e laica “religione della libertà” avrebbe voluto evitare. Non può esserci laicità dove il potere politico viene a trovarsi asservito a una qualsiasi confessione religiosa, ma non può esserci nemmeno laddove il potere politico trasforma se stesso in un assoluto parareligioso che stabilisce quali idee debbano avere diritto di cittadinanza e quali no. Detto in estrema sintesi, la laicità poggia su almeno due presupposti fondamentali: anzitutto l’inviolabilità di certi diritti umani, tra i quali c’è senz’altro anche la libertà religiosa, i quali vengono prima del potere politico, quindi dello stato; in secondo luogo, l’importanza di una cultura e di istituzioni che garantiscano la pluralità delle idee, la libera competizione per il potere, il suo esercizio non ideologico e la possibilità che venga revocato attraverso mezzi pacifici e costituzionali. Da questo punto di vista, la laicità non è soltanto un modo di concepire i rapporti tra stato e chiesa, ma si configura come uno stile di pensiero, uno stile di vita, che dovrebbe essere comune a credenti e non credenti; uno stile di vita ispirato alla fermezza nelle proprie convinzioni, persino all’intransigenza, se necessario (non è tollerabile, ad esempio, che in nome di principi religiosi le donne vengano offese nella loro dignità o che, come accade in certi paesi, si venga condannati a morte per apostasia), ma anche al rispetto e all’apertura nei confronti delle convinzioni, delle ragioni e della religione degli altri. Qui davvero ne va della nostra identità.
Sono ormai una trentina d’anni che il mondo occidentale sembra attraversato da un profondo bisogno d’identità. Dal crollo dell’impero sovietico, agli attacchi terroristici da parte del fanatismo islamista, alla contemporanea diffusione di quella che potremmo definire l’ideologia del politicamente corretto, che il cardinale Joseph Ratzinger definì la “dittatura del relativismo”, per un motivo o per un altro, la religione ha ritrovato uno smalto che la secolarizzazione sembrava aver intaccato per sempre. Sia coloro che vorrebbero incendiare il mondo, sia i delusi dal comunismo reale e dall’ideologia relativista volgono ormai il loro sguardo alla religione, come se si trattasse dell’unica agenzia di senso rimasta in un mondo decrepito e in via di dissoluzione. Islam a parte, all’interno del quale il fanatismo terrorista sta consumando una tragedia di dimensioni gigantesche, mi domando tuttavia se questo nuovo clima che si va delineando rappresenti effettivamente un vantaggio per la religione e per la cultura liberaldemocratica dell’Occidente.
Che la religione rappresenti da sempre una formidabile fonte d’identità è fuori discussione. Occorre anche riconoscere, però, che questa sua importante funzione per la vita degli individui e della società dovrebbe scaturire dalla fede in Dio, non dal bisogno d’identità o di comunità. Quando una religione mira direttamente a produrre effetti sociali, politici o economici di qualsiasi tipo, avvertiamo, non a caso, che questo non si addice a una società dove le cose di Cesare sono distinte da quelle di Dio; avvertiamo altresì che il discorso religioso si appesantisce di analisi mondane, il più delle volte discutibili, che finiscono per trasformare i leader religiosi in leader politici. Le chiese dunque farebbero bene a tenere ben distinti coloro che cercano Dio da coloro che cercano un’identità o una sponda per rilanciare la propria diffidenza nei confronti dell’economia di mercato, o qualsiasi altra prestazione mondana. Non giova a nessuno che esse allontanino lo sguardo da ciò che per loro conta per davvero, ossia Dio, ripiegando su discorsi, che per quanto importanti, potrebbero essere tuttavia troppo umani.
Intendo dire che non c’è niente di più riduttivo e fuorviante che parlare di Dio semplicemente perché serve, perché la fede in lui aiuta magari a padroneggiare innumerevoli contingenze della vita personale e sociale. Il discorso su Dio non equivale in tutto e per tutto al discorso sulle conseguenze morali, personali, socio-politiche o civili del discorso su Dio; esso ha certamente ricadute pragmatiche di questo tipo, come è confermato del resto in modo esemplare dalla fede cristiana; ma parlare di Dio guardando in primo luogo agli obbiettivi pragmatici che si intendono perseguire equivarrebbe a una vera e propria “strumentalizzazione” di Dio, destinata inevitabilmente a immiserire la fede in lui e, quindi, a riflettersi negativamente anche sull’efficacia delle sue funzioni sociali. Per dirlo in forma ancora più esplicita, almeno per quanto riguarda la cultura dell’occidente ebraico cristiano, l’utilità sociale della fede nel Dio di Abramo e di Gesù Cristo non si discute. Come insegnano i classici della sociologia, da Weber a Luhmann, le principali forme culturali dell’occidente – stato di diritto, economia di mercato, scienza e tecnica – hanno nella religione ebraico-cristiana le loro condizioni di possibilità. A guardar bene, tuttavia, bisogna riconoscere che tutti questi sono vantaggi accessori, se così si può dire; sono cioè vantaggi che la fede, senza sminuire in alcun modo la loro importanza, è stata in grado di produrre semplicemente perché è stata in grado di tener vivo nella società il senso di qualcosa che, valendo di per se stesso, li ha offerti in sovrappiù, ossia il senso di Dio. Almeno la fede nel Dio di Abramo e di Gesù Cristo, lo ripeto, non è riducibile alle sue funzioni pragmatiche; non è riducibile a una prestazione identitaria per uomini desiderosi di sentirsi a casa da qualche parte (Gesù non aveva casa). Si tratta di una fede che esprime soprattutto la cultura del nostro rapporto con ciò che non dipende da noi, con ciò che vale in modo incondizionato, con ciò che, se mi è consentito il paradosso, serve a tutto proprio perché, di per sé, non serve a nulla, è puramente gratuito, è grazia, appunto. Per questo, quando si cerca di ridurla a un affare privato o alle sue funzioni sociali o addirittura di sostituirla con qualche equivalente funzionale, in realtà si mira a rendere disponibile ciò che per principio non lo è, a negoziare ciò che non è negoziabile. Con risultati inevitabilmente fallimentari sia per i singoli uomini che per la società.
La società secolare, per quanto la cosa possa sembrare sorprendente, ha urgente bisogno che da qualche parte ci sia qualcuno che parli di Dio con una lingua che non sia troppo mondana, con una lingua che sappia trasmettere la consapevolezza che si sta sfidando l’indicibile. Abbiamo bisogno di parole che ci dicano di una differenza incolmabile, di una alterità radicale, grazie alla quale possiamo immergerci con maggiore consapevolezza in noi stessi e nel mondo che abitiamo. Ha ragione Luhmann quando sostiene che la funzione della religione in una società complessa è quella di “rappresentare l’irrappresentabile”. Un funzionalista, forse il più grande tra i funzionalisti, ci dice che la religione deve farsi carico di una funzione impossibile, di una funzione che non è una funzione e che, proprio per questo, è preziosissima. In questo sforzo di rappresentare ciò che non è rappresentabile o di proclamare una parola che, attraverso Cristo, assume sembianze umane, ma non per questo diventa meno sorprendente e misteriosa, il discorso su Dio contribuisce a salvaguardare lo spessore semantico del linguaggio, la sua indispensabile zavorra, impedendogli di appiattirsi a semplice chiacchiera autoreferenziale.
D’altra parte alle radici del linguaggio umano c’è la religione, l’idea di Dio. La cultura secolare potrebbe avere qualcosa da ridire rispetto a questa affermazione, ma sta di fatto che le lingue del mondo si sono forgiate proprio nel tentativo di fare i conti con il divino, di interpretarne il silenzio e la parola. E’ in questa ermeneutica che il linguaggio si è arricchito di significati impensabili e di quella preziosa zavorra di cui dicevo sopra; è soprattutto grazie a questa ermeneutica che ha acquisito dimestichezza con l’alterità e quindi con la necessità del dialogo e della reciproca comprensione. Senza questa prova, senza questo confronto con l’alterità di Dio, probabilmente saremmo ancora chiusi nella caverna del nostro io o della nostra tribù, alle prese con i nostri monologhi. L’idea di Dio squarcia invece qualsiasi chiusura, ci costringe a fare i conti con l’alterità degli altri e di noi stessi, rendendo visibile nel contempo l’eccedenza che c’è nelle nostre parole, la loro provenienza da una dimora indicibile, una dimora che fa pensare alla “lingua pura” di cui parlava Walter Benjamin, i cui frammenti sono dispersi in tutte le lingue, senza che nessuna lingua possa mai riuscire ad articolarla nella sua pienezza.