La fine della competenza
Le società moderne sono dominate dall’idea che gli esperti frenino la democrazia. Che rapporto c’è tra la sfiducia nell’autorità e il populismo? Il saggio di Tom Nichols
Tutti li abbiamo incontrati. Sono le persone che lavorano con noi, i nostri amici, i nostri familiari. Sono giovani e vecchi, ricchi e poveri, alcuni hanno studiato, altri sono soltanto armati di un computer portatile o di una tessera della biblioteca. Ma tutti loro hanno una cosa in comune: sono persone qualsiasi persuase di essere in realtà i depositari di un patrimonio di sapere. Convinti di essere più informati degli esperti, di saperne molto di più dei professori e di essere molto più acuti della massa di creduloni, costoro sono gli “spiegatori” e sono entusiasti di illuminare noi e tutti gli altri su qualunque tema, dalla storia dell’imperialismo ai pericoli connessi ai vaccini.
Accettavamo persone di questo genere e le tolleravamo perché sapevamo che, in fondo in fondo, erano di norma animate da buone intenzioni. Nutrivamo perfino un certo affetto nei loro confronti (…). Potevamo provare tenerezza per persone così perché erano bizzarre eccezioni in un Paese che per il resto rispettava il punto di vista degli esperti e su di esso faceva affidamento. Ma in questi ultimi decenni è cambiato qualcosa. Lo spazio pubblico è sempre più dominato da un ampio assortimento di persone poco informate, molte delle quali sono autodidatte, disprezzano l’istruzione regolare e minimizzano il valore dell’esperienza.
Sono gli "spiegatori". Convinti di essere più informati degli esperti e di essere più acuti della massa di creduloni
Questa è una cosa molto negativa. Una società moderna non può funzionare senza una divisione sociale del lavoro e senza affidarsi a esperti, professionisti e intellettuali (per ora userò queste tre parole come intercambiabili). Nessuno è un esperto di ogni cosa. Non importa quali siano le nostre aspirazioni: siamo costretti dalla realtà, costituita dal tempo a disposizione e dagli incontrovertibili limiti del nostro talento. Prosperiamo perché ci specializziamo e perché sviluppiamo meccanismi formali e informali nonché abitudini che ci permettono di fidarci gli uni degli altri per quello che riguarda queste specializzazioni.
Nei primi anni Settanta lo scrittore di fantascienza Robert Heinlein coniò una massima, da allora spesso citata, secondo cui “la specializzazione va bene per gli insetti”. Esseri umani davvero capaci, scriveva, dovrebbero essere in grado di fare quasi ogni cosa, da cambiare un pannolino a comandare una nave militare. E’ un’opinione nobile che celebra l’adattabilità e la resilienza degli esseri umani, ma è sbagliata. Quando, un tempo, ogni colono si tagliava da solo gli alberi e si costruiva la sua casa, si trattava di un sistema inefficiente e, per di più, si producevano soltanto abitazioni rudimentali.
C’è una ragione se non facciamo più così. Quando costruiamo dei grattacieli non ci aspettiamo che l’esperto di metallurgia che sa che materiale si debba mettere in una trave maestra, l’architetto, che disegna l’edificio, e il vetraio, che installa le finestre, siano la stessa persona. E questo è il motivo per il quale possiamo goderci la vista sulla città dall’altezza di un centinaio di piani: tutti gli esperti, pur avendo competenze che si sovrappongono parzialmente, rispettano le capacità professionali di molti altri e si concentrano nel fare quello che conoscono meglio. La loro fiducia e la loro collaborazione conducono a un prodotto finale più grande e migliore di qualunque cosa avrebbero potuto costruire da soli.
Il punto è che se non ammettiamo i limiti delle nostre conoscenze e non ci fidiamo delle competenze degli altri la cosa non può funzionare. Talvolta abbiamo delle resistenze ad accettarlo perché questo indebolisce il nostro senso di indipendenza e di autonomia. Vogliamo credere di essere capaci di prendere ogni tipo di decisione e ci infastidiamo con chi ci corregge o ci dice che ci sbagliamo o ci dà istruzioni su qualcosa che non capiamo. Questa reazione umana, naturale nei rapporti tra individui, è pericolosa quando diventa una caratteristica diffusa dell’intera società.
Una società moderna non può funzionare senza una divisione sociale del lavoro e senza affidarsi a esperti, professionisti e intellettuali
La conoscenza è davvero più in pericolo e la conversazione e il dibattito sono davvero così più difficili oggi di quanto non lo fossero cinquanta o cento anni fa? Gli intellettuali si sono sempre lamentati dell’ottusità dei loro concittadini e le persone comuni hanno sempre diffidato di cervelloni ed esperti. Quanto è nuovo quindi questo problema e quanto dobbiamo prenderlo sul serio?
Una parte di questo conflitto sulla pubblica piazza è soltanto un rumore di fondo del tutto prevedibile, ora amplificato da internet e dai social media. Internet raccoglie fattoidi e idee sgangherate e poi spalma tutta questa cattiva informazione e questi miseri ragionamenti in tutto il mondo elettronico (immaginate come sarebbero sembrati gli anni Venti del Novecento se ogni tipo strambo in ogni piccola città avesse avuto la sua stazione radio). Può essere che persone di questo genere non siano più sciocche o meno inclini ad ascoltare gli esperti oggi di quanto non lo fossero cent’anni fa: solo che ora tutti possiamo sentire queste persone.
D’altra parte, una certa quota di conflitto tra chi conosce alcune cose e chi ne conosce altre è inevitabile. Probabilmente tra i primi cacciatori e i primi raccoglitori avvenivano liti su che cosa mangiare a cena. E man mano che varie aree dello sviluppo umano diventavano specialità di professionisti, i disaccordi erano destinati a crescere e a farsi più aspri. E come la distanza tra gli esperti e il resto della cittadinanza è cresciuta, così è cresciuto il divario sociale e la mancanza di fiducia reciproca. In tutte le società, non importa quanto avanzate, c’è una corrente sotterranea di risentimento nei confronti delle élites istruite così come c’è un persistente attaccamento culturale alla “saggezza popolare”, alle leggende urbane e ad altre reazioni umane – irrazionali, ma normali – che si sviluppano davanti alla complessità e alla confusione della vita moderna.
Se non ammettiamo i limiti delle nostre conoscenze e non ci fidiamo delle competenze degli altri, un paese non può funzionare
Nelle democrazie, con i loro rumorosi spazi pubblici, c’è sempre stata una particolare tendenza alle sfide contro la “conoscenza ufficiale”. In realtà, le democrazie sono maggiormente inclini a sfidare qualsiasi cosa ufficiale o costituita: è una delle caratteristiche che le rendono “democratiche”. Perfino nel mondo antico le democrazie erano note per la loro fascinazione nei confronti del cambiamento e del progresso. Tucidide, per esempio, descriveva gli ateniesi democratici del V secolo avanti Cristo come persone irrequiete, “tendenti all’innovazione rivoluzionaria” e, centinaia di anni più tardi, San Paolo trovò che gli ateniesi “non sapevano spendere altrimenti il loro tempo che nel dire o nell’ascoltare delle novità”. Nella cultura democratica questo inesausto mettere in dubbio l’ortodossia è celebrato e protetto.
Gli Stati Uniti con il loro intenso focalizzarsi sulle libertà dell’individuo, custodiscono e venerano la resistenza all’autorità intellettuale ancor più di quanto non facciano altre democrazie. Naturalmente, nessun discorso su “come pensano gli americani” può essere completo senza un cenno obbligatorio ad Alexis de Tocqueville, l’osservatore francese che nel 1835, in La democrazia in America, notò come gli abitanti dei nuovi Stati Uniti non fossero esattamente innamorati degli esperti e delle loro competenze: “Nella gran parte delle operazioni della mente – scrisse – ogni americano fa esclusivamente appello allo sforzo individuale della propria comprensione”. La sfiducia nell’autorità intellettuale – teorizzò Tocqueville – affondava le radici nella natura della democrazia americana. Quando “i cittadini, posti su un piede di parità, si vedono tutti reciprocamente da vicino – scrisse – sono costantemente ricondotti alla propria ragione come alla più ovvia e alla più prossima fonte della verità. A essere distrutta non è soltanto la fiducia in questo o in quell’uomo, ma la disposizione a fidarsi in generale dell’autorità di qualsiasi uomo”.
Osservazioni simili non sono state fatte soltanto sugli Stati Uniti nel periodo in cui erano nati da poco. Insegnanti, esperti e “conoscitori” professionali si sono sfogati sulla mancanza di deferenza nei loro confronti da parte della società in cui vivevano fin da quando Socrate fu costretto a bere la sua cicuta. In tempi più moderni, nel 1930, il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset denunciò, nell’omonimo testo, la “ribellione delle masse” e l’infondata arroganza intellettuale che la caratterizzava: “Così, nella vita intellettuale, che per la sua stessa essenza richiede e presuppone la qualifica, si avverte il progressivo trionfo degli psuedointellettuali senza qualifica, inqualificabili e squalificati dalla loro stessa costituzione mentale (…). Potrei sbagliarmi, ma lo scrittore, quando prende la penna per scrivere su un tema che ha ampiamente studiato, deve pensare che il lettore medio, che non si è mai occupato dell’argomento, se lo legge non è con l’obiettivo di imparare qualcosa da lui, ma, al contrario, per pronunciare sentenze su di lui quando quello che scrive non coincide con le banalità che questo lettore ha nella sua testa”.
In termini che non suonerebbero fuori luogo in questi nostri anni, Ortega y Gasset attribuiva la crescita di un’opinione pubblica sempre più potente ma sempre più ignorante a molti fattori, inclusi la ricchezza materiale, la prosperità e le conquiste scientifiche. L’attaccamento americano all’abitudine di fare affidamento intellettuale su se stessi descritto da Tocqueville sopravvisse per circa un secolo prima di crollare sotto una serie di assalti dall’interno e dall’esterno. La tecnologia, l’educazione secondaria universale, il diffondersi di competenze specializzate e l’emergere degli Stati Uniti, a metà del Ventesimo secolo, come potere globale hanno contribuito a indebolire l’idea – o, per meglio dire, il mito – secondo cui l’americano medio era sufficientemente equipaggiato sia per le sfide della vita quotidiana sia per condurre gli affari di un grande Paese.
La sfiducia nell’autorità intellettuale affonda le radici nella natura della democrazia americana. Oggi però c’è un passaggio in più
Più di mezzo secolo fa, in Anti-Intellectualism in American Life, lo studioso della politica Richard Hofstadter scrisse che “la complessità della vita moderna ha costantemente ridotto le funzioni che un comune cittadino può svolgere in autonomia con intelligenza e competenza”. Nell’originario sogno populistico americano la onnicompetenza dell’uomo comune era fondamentale e indispensabile. Si pensava che, senza chissà quale speciale preparazione, potesse dedicarsi a una professione e a gestire il governo. Oggi l’uomo comune sa che non potrebbe neppure prepararsi la colazione senza usare una qualche attrezzatura, che è per lui più o meno misteriosa e che la competenza ha messo a sua disposizione; e quando poi si siede davanti alla sua colazione e sfoglia il giornale del mattino, legge di molti diversi argomenti e riconosce, se è onesto con se stesso, che non ha accumulato una competenza sufficiente a esprimere giudizi riguardo a questi temi.
Hofstadter – e questo avveniva nel lontano 1963 – sosteneva che questa complessità schiacciante producesse sentimenti di impotenza e di rabbia in una massa di cittadini consapevoli di essere sempre più alla mercé di élites più brillanti. “Quello che era uno scherzoso e perlopiù benevolo dileggio nei confronti dell’intellettualità e dell’istruzione regolare si è trasformato in un maligno risentimento verso l’intellettuale e le sue capacità in quanto esperto”, avvertiva Hofstadter. “Un tempo l’intellettuale era bonariamente preso in giro perché non serviva; ora suscita profondo fastidio perché serve troppo”.
Cinquant’anni dopo, il professore di diritto Ilya Somin descrive chiaramente come ben poco sia cambiato. Come Hofstadter prima di lui, nel 2015 Somin ha scritto che “le dimensioni e la complessità del governo” hanno reso “più difficile per gli elettori con competenze limitate il controllo e la valutazione delle molte attività del governo stesso. Il risultato è un sistema di governo nel cui contesto spesso il popolo non può esercitare in modo responsabile ed efficace la sua sovranità”. L’aspetto più inquietante è la constatazione che, nei decenni nel frattempo intercorsi, gli americani abbiano fatto poco per porre rimedio al divario tra le loro personali conoscenze e il livello di informazioni necessario per partecipare a una democrazia avanzata. “Il basso livello di comprensione politica presso l’elettorato americano – nota giustamente Somin – rimane uno degli assunti più solidi delle scienze sociali”.
Sul numero dello scorso febbraio, il mensile del Sole 24 Ore IL, diretto da Christian Rocca, ha pubblicato in esclusiva per l’Italia un estratto di un libro scritto da Thomas M. Nichols, professore di National Security Affairs all’US Naval War College di Newport, Rhode Island. Il titolo del libro è “The Death of Expertise”, “La fine della competenza”. Sarà pubblicato nel 2018 in Italia. La lettura del libro, oltre che dal Foglio, è stata consigliata a Cernobbio dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Qui un capitolo del libro, per gentile concessione di IL.