Scoprire l'innominabile attuale di Calasso in un breve racconto ottocentesco
Ansia senza oggetto, catastrofi incombenti e cabale allegoriche
Chi ama la bighelloneria intellettuale, gli itinerari illogici e tortuosi che qualunque Baedeker sconsiglierebbe ma qualunque perdigiorno imboccherebbe con la sicurezza di un sonnambulo, si prenda il lusso di visitare i saloni de L’innominabile attuale, il nuovo libro di Roberto Calasso, intrufolandosi da una porticina sul retro che neppure è segnata sulla planimetria del palazzo. E’ un racconto breve di M.P. Shiel scritto alla fine dell’Ottocento, una strana avventura poliziesca che ha per eroe l’eruditissimo e decadente principe Zaleski. In Germania c’è una misteriosa epidemia di suicidi, così dilagante che si dubita siano suicidi. La popolazione, informa il narratore, vive in un’ansietà permanente ma trattenuta, come nel presentimento di una catastrofe senza nome. Che cosa sta accadendo al mondo? Quelle morti ripetute e inspiegabili nascono da un’improvvisa febbre di autodistruzione o compongono una sequenza di omicidi senza scopo? Nessuno si sente al sicuro: “Fremere dallo spavento, e non sapere perché – questo è il trascendentalismo del terrore”. Tutto era cominciato con la straordinaria morte di un eminente medico berlinese. Alcuni giornali hanno parlato di suicidio, altri di omicidio, entrambi senza l’ombra di una prova. Il narratore rammenta che da qualche parte Novalis ha indicato la possibilità (o la desiderabilità) di un suicidio simultaneo dell’intera famiglia umana: è probabile che quel momento sia arrivato. La morte del dottore ha conseguenze impensabili, sta trasformando la civiltà “in una tomba onnivora, un ossario universale”. Il principe Zaleski, con un’indagine che richiede le abilità congiunte del filologo classico e dell’agente segreto, scopre l’arcano. All’origine della catena di morti c’è una società segreta preoccupata per la prosperità dell’unico idolo che abbia senso venerare: la Società stessa. La carneficina ha un movente eugenetico; da qui la congettura secondo cui, nel tempo che viene, l’antico ruolo del sacerdote sacrificale sarà rivestito dai medici. Il modello che i cospiratori si sono scelti è l’antica Sparta “addomesticatrice di uomini”, dove tutto era sottomesso al benessere della collettività. Nella loro insegna, due serpenti compongono una sigla: S.S. “Questa dunque è la storia dei miei pensieri e delle mie azioni in relazione a questa confraternita sconsiderata: e ora che la loro cabala è nota ad altri”, si congeda il principe, “non ritengo improbabile che sentiremo parlare ancora della Società di Sparta”. Di certo l’Europa sarebbe stata presto costretta a familiarizzare con quella sigla.
Dopo aver richiuso le poche pagine del racconto di Shiel, The S.S. (1896), il lettore apra pure L’innominabile attuale. Troverà, diversamente combinati, pressappoco gli stessi elementi: l’ansia senza oggetto, all’ombra di una catastrofe incombente; l’esperimento quasi riuscito di distruzione e di autodistruzione dell’umanità, l’oscillazione indecidibile tra omicidio e suicidio; il senso perduto, e tuttavia inaggirabile, del sacrificio; la società segreta come stato nello stato che celebra il culto del Grande Animale; il modello perenne di Sparta, “comparsa al mondo quasi soltanto per se stessa e per la propria affermazione”, come scrisse Jacob Burckhardt in un passo così inequivocabile che nel 1940 un editore tedesco ligio al regime preferì espungerlo da una riedizione della “Griechische Kulturgeschichte”.
E’ inutile svelare ai lettori che mi hanno seguito fin qui nella cabala allegorica a chi corrisponda il principe Zaleski, investigatore erudito; meno inutile, forse, è una piccola notazione in coda. Il titolo del libro, informa il risvolto di copertina, era comparso nel 1983 ne La rovina di Kasch, “dove si incontra l’espressione ‘l’innominabile attuale’, preceduta e seguita da due righe di bianco. Al posto di quel bianco ora c’è un libro”. Ma forse l’intuizione che lo regge è perfino più antica, se facciamo caso a una frase, poco più che un inciso, che Calasso scrisse anni prima in un saggio su Stirner: “E quando dall’immagine del nazismo e del fascismo si solleverà, se mai si solleverà, il velo della ripulsa dettata dai buoni sentimenti bisognerà constatare che quei due fenomeni sono una figura centrale di quella coazione a sperimentare, non solo sulla natura ma su noi stessi, che è l’impronta del secolo, in tutte le sue manifestazioni”. Quell’inciso è diventato un libro. Ma che ne sia oggi del velo della ripulsa, è affare che richiederebbe un’altra indagine – con tutto il terrore trascendentale del caso.