Nel secolo dei moralisti ha una morale anche l'ambiguità
“È amator di pace chi dissimula... tollerando, tacendo, aspettando”, scriveva nel Seicento un fine letterato napoletano, riscoperto poi da Croce. La Spagna, i gesuiti e l'arte di sgusciar via come virtù dell'uomo prudente
Affermo dunque che ‘l mio fine è stato di trattar che ‘l viver cauto ben s’accompagna con la purità dell’animo, ed è più che cieco chi pensa che prender diletto della Terra s’abbia d’abbandonar il Cielo. Non è vera prudenzia quella che non è innocente, e la pompa degli uomini alieni dalla giustizia e dalla verità non può durare (…). Così è amator di pace chi dissimula con l’onesto fine che dico, tollerando, tacendo, aspettando, e, mentre si va rendendo conforme a quanto gli succede, gode in certo modo anche delle cose che non ha, quando i violenti non sanno goder di quelle cose che hanno, perché, nell’uscir da sé medesimi, non si accorgono della strada ch’è verso il precipizio…”.
Con chi ha occhi di lince per scrutare il pensiero, si usi l'inchiostro
di seppia per nascondere il proprio intimo. Non lo si lasci conoscere agli altri (Gracián)
Cercatelo e sfogliatelo (ottima, l’edizione Costa & Nolan del 1983), il trattatello pubblicato a Napoli nel 1641 col curioso titolo “La dissimulazione onesta”, presto inghiottito nell’oblio, riesumato da Benedetto Croce all’inizio del XX secolo e quindi ripubblicato da Salvatore S. Nigro. Ne era autore un fine letterato, membro di accademie e frequentatore di Corti, Torquato Accetto, nato tra il 1586 e il 1598, di cui gli specialisti apprezzano una raccolta di delicate rime. Visse in una Napoli già miserabile e stracciona ma in cui le accecanti luci e le fosche ombre del Caravaggio si accendevano di nuovi bagliori, e il Basile scriveva in dialetto napoletano la raccolta di fiabe che sarebbe divenuta il modello della favolistica dei fratelli Grimm.
Nelle poche pagine del trattatello, Accetto teorizzava l’opportunità – anzi, la necessità – di assumere un atteggiamento di prudente mascheramento o, appunto, “dissimulazione”, delle proprie credenze o convinzioni, per difendersi – o addirittura per salvarsi – dal potere e da una società corrotta e malvagia; ma anche, in certo modo, per controllare le proprie passioni. Nell’esemplificazione dell’Accetto, la dissimulazione può investire anche, e rivestire d’una nuova veste accentuatamente barocca, aspetti già pur noti alla simbologia morale ed estetica. “Dico il bello de’ corpi che stanno soggetti alla mutazione, e veggansi tra questi i fiori e tra’ fiori la lor reina: e si troverà che la rosa par bella perché a prima vista dissimula di essere cosa tanto caduca, e quasi con una semplice superficie di vermiglio fa restar gli occhi in un certo modo persuasi ch’ella sia porpora immortale”, mentre in breve appassisce e sfiorisce, ”perché la dissimulazione in lei non può durare…”. L’arte della dissimulazione si distende su ogni aspetto della vita umana, è “una industria di non far vedere le cose come sono. Si simula quello che non è, si dissimula quello ch’è…”.
Torquato Accetto teorizza la necessità
di un atteggiamento
di prudente mascheramento
per difendersi
dal potere
Nei suoi colori che toccano anche, nel gusto del tempo, i toni del disfacimento e della morte, la dissimulazione dell’Accetto è in definitiva una morale dell’ambiguità, facilmente intrecciabile con la “casuistica” allora in gran spolvero grazie agli arrembanti seguaci di sant’Ignazio di Loyola (morto nel 1556 e innalzato agli altari, nel 1622, da Gregorio XV). Napoli era allora sotto il dominio spagnolo, all’inizio di un declino economico e sociale che di lì a poco, nel 1647, avrebbe fatto scatenare la plebe aizzata da Masaniello: per vivere, se non addirittura per sopravvivere, occorreva evidentemente non dispiacere ai potenti di turno. “La Spagna – ha scritto Benedetto Croce – introdusse lo sfarzo pomposo, le ambizioni, i cerimoniali, ma l’Italia era già degradata moralmente prima della conquista spagnola e pertanto fu ‘una decadenza che s’abbracciava a una decadenza’”. D’altro canto, poiché l’Italia non era riuscita a costituirsi in stato unitario nazionale, “il dominio della Spagna fu per lei il maggior bene o il minor male che si voglia dire”. La Spagna infatti “diede ordine alla politica dei vari Stati a lei legati, difese la penisola dal pericolo turco, represse l’anarchia dei tanti signorotti, favorì in qualche misura negli italiani certi sensi di devozione al re o allo Stato che non saranno privi di effetti civili e politici in tempi successivi”. Non so dire se Croce abbia ragione nel mettere in buona luce quei “sensi di devozione”, ecc., ne lascio a lui la responsabilità.
In tempi instabili e inquieti – quelli tra la Pace di Augusta (1555) che chiudeva un periodo di sanguinose guerre e sanciva il principio del “cuius regio, eius religio”, e la Pace di Vestfalia del 1648 – l’arte della “dissimulazione” contro i potenti o il potere doveva essere largamente praticata, anche al di fuori di Napoli. Appena un anno prima di Vestfalia – ancora nel fatidico 1647 – il gesuita Baltasar Gracián y Morales, cappellano delle armate spagnole e insegnante di Sacre Scritture al Collegio di Saragozza, dava alle stampe il suo celebre “Oracolo manuale e arte di prudenza”, capolavoro dell’etica barocca, che tocca gli stessi tasti del meno noto napoletano: “L’uomo avveduto, saggio nel parlare, prudente nell’agire, è accettato e persino desiderato nella ristretta cerchia dei saggi…”; “l’indugio del prudente gareggi con l’acume del perspicace: con chi ha occhi di lince per scrutare il pensiero, si usi l’inchiostro di seppia per nascondere il proprio intimo. Non si lasci conoscere agli altri…”, “I doveri dell’amicizia ammettono una sola eccezione: quella di non confidare all’amico i propri difetti, che, se fosse possibile, non dovrebbero essere confidati neppure a se stessi”. Una sapida scaltrezza avvolge qualcosa che potrebbe esser definita come opportunismo: “Saper sgusciar via è la scappatoia degli uomini prudenti. Con la galanteria di una frase elegante soglion cavarsi fuori anche dal più intrigato labirinto”. E’ la morale di Don Abbondio (“… il coraggio, chi non lo ha, non se lo può dare…”)? I “Promessi sposi” sono ambientati in una spagnolesca Lombardia, tra il 1628 e il 1630, ma uno dei protagonisti è fra Cristoforo, che l’arte della prudenza e della dissimulazione non la conosce, a differenza del suo superiore, il Padre Provinciale, il quale non replica al Conte Zio e alla sua morale, vero contraltare dell’Accetto e di Baltasar Gracián: “sopire, troncare, padre molto reverendo, troncare, sopire…”.
Una morale facilmente intrecciabile
con la "casuistica"
allora in gran spolvero
grazie ai seguaci
di sant'Ignazio
di Loyola
Eppure, il teologo spagnolo voleva disegnare la figura non del vile opportunista che si barcamena subdolamente tra i potenti, ma dell’eroe, titolo di un’altra sua celebre opera. L’eroismo gracianesco è la qualità dell’individuo che si distacca dalla massa e, in grazia di una fiducia in se stesso tenacemente e duramente conquistata, eccelle tra gli uomini con l’uso accorto e disciplinato di doti sottili costantemente affinate, e perviene al successo nel mondo e al trionfo della sua volontà su quelle altrui. In una lettura storicamente accettabile, Gracián è un divulgatore di strategie di vita vissuta, tutte tese alla gloria trionfale nel mondo e all’affermazione sui tipi “inferiori” e indifferenziati. Gràcian, che è tra i massimi esponenti del “siglo de oro”, scrisse diversi libri di gran successo, sfidando l’aperta diffidenza e gli ostacoli frappostigli dal suo ordine, i gesuiti. Con qualche forzatura antistorica, diremmo pure che si tratta di “manuali del Superuomo”. Schopenhauer e Nietzsche, a ragione o a torto, lo considerarono quasi un loro antesignano.
L’opera di Gracián divenne però, ancora a ragione o a torto, il modello di quella “precettistica prudenziale” che la critica antibarocca moderna – da De Sanctis (e da Manzoni) fino a Croce, per dire – ha ritenuto sia stata all’origine della decadenza nei costumi e nella morale pubblica del secolo. L’uso di una accorta dissimulazione poteva essere buona pratica addirittura sul terreno religioso. il “nicodemismo” fu strategia di sopravvivenza per quanti, volendo scampare la persecuzione se non la morte, ritennero di doversi acconciare a professare in pubblico una fede e ossequiare i comandamenti di una chiesa diversa da quella coltivata nell’intimo della coscienza o ostile alle sue convinzioni (capitava coi “libertini” agnostici o atei). Il termine prende spunto dal Nicodemo del Vangelo di Giovanni, il fariseo che, attratto dalla predicazione di Gesù, si recava a incontrarlo protetto dall’oscurità della notte, mentre di giorno ostentava piena adesione al farisaismo. Calvino denunciò la pratica, esortando i suoi seguaci a professare apertamente la propria fede, fino al martirio. La scelta del coraggio venne sostenuta anche dal cardinale Giulio Della Rovere, che nel 1552 scrisse una “Esortazione al martirio” (ma successivamente si fece protestante). La discussione si allargò investendo anche la legittimità della fuga per scampare alla persecuzione: la fuga avrebbe evitato la vergogna della simulazione. Sul tema, evidentemente assai sentito, scrissero riformatori italiani fuggiaschi in Svizzera, da Celso Martinengo a Lattanzio Ragnoni, ai Pietro Martire Vermigli, Scipione Lentolo, Alessandro Trissino; l’antitrinitario Fausto Sozzini citò, a sostegno della tesi, lo scritto di Atanasio d’Alessandria, “De fuga in persecutione”, asserendo addirittura che Cristo in definitiva simulò quando “finse di andare oltre”. Anche per Michelangelo Buonarroti si è ipotizzata una adesione nicodemica alla dottrina della giustificazione per sola fede, propria della Riforma protestante ma anche del circolo valdesiano e ochiniano frequetato da Vittoria Colonna. Un indizio del nicodemismo di Michelangelo potreste trovarlo nella “Pietà Bandini”, dove nel volto della figura incappucciata di Nicodemo che sorregge il cadavere di Cristo si individua l’autoritratto del maestro. E perché non sospettare anche di Galileo Galilei, con la sua supposta ritrattazione?
La “dissimulazione” al centro di questi dibattiti non è, per Accetto, sinonimo di menzogna, ma invito al raccoglimento e alla cautela. Accetto differenzia la simulazione, moralmente riprovevole perché viziata da intenzioni cattive, dalla dissimulazione, che poteva a lui presentarsi come ultimo rimedio per difendersi da una società pullulante di simulatori, e per tenere a freno pericolosi impulsi e passioni. La ricetta richiedeva onestà di animo e un buon equilibrio. Su questo presupposto, Rosario Villari poté dare una interpretazione positiva della sua opera, ipotizzando che il saggista volesse richiamare i suoi concittadini all’esercizio del “dominio della ragione sull’impulso”, l’impulso alla rivolta o alla aperta opposizione, l’una come l’altra condannata, come dimostrò di lì a poco la vicenda di Masaniello, al fallimento.
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Napoli allora
era sotto il dominio spagnolo,
per sopravvivere occorreva
non dispiacere
ai potenti di turno
Nell’accezione negativa di De Sanctis e di Croce, o in quella possibilista di Villari, la morale che si predica in queste pagine è sempre la morale del “particulare”, la morale del Guicciardini. Il grande storico condivideva con Machiavelli lo studio amoroso della classicità romana, ma mentre Machiavelli in quella grandiosa eredità cercava nobili massime etiche valide per la costruzione dello stato moderno nella pienezza del potere, il Guicciardini è guardingo e scettico, rifugge dalle illusioni eroiche, si rende conto che l’Italia del suo tempo non può nutrire fantasie, perché è ormai alla mercé di potenze estranee. Machiavelli, con la sua “Virtus” (quella propria al leonardesco ”Uomo vitruviano”), è il contemporaneo ideale del Della Casa (“Il Galateo” ) e del Castiglione ( “Il Cortigiano”), i grandi teorici e “sociologi” della formazione della classe dirigente e politica post-medievale. I tre, nelle loro differenze, condividono l’ottimismo, la fiducia nel leale, franco, positivo rapporto tra il potere e chi lo circonda ponendosi al suo servizio. Guicciardini, pur elettivamente coinvolto nella politica, non ripone alcuna fiducia in vasti ideali e anzi, come conclude De Sanctis, “non metterebbe un dito a realizzarli”. Dopo di lui, ma sulla sua scia, il rapporto tra il potere e il cortegiano viene sconvolto, rovesciato. Nella trattatistica umanistico-rinascimentale, il cortegiano è il nuovo ceto politico che organizza e ottimizza gli strumenti del suo agire a fianco del potente, di cui deve accattivarsi la fiducia attraverso un rapporto simbiotico. Nel Seicento dei grandi sconvolgimenti politici e religiosi, il rapporto tra i due soggetti diventerà un rapporto intriso di diffidenza. Il cortigiano, l’uomo comunque al servizio del potente di turno, deve accattivarsi le grazie del signore facendo ricorso anche a sotterfugi, appena velati da un senso della “onestà” che è però tutto sociale, non etico. La morale del nuovo cortigiano si nutre della “onesta” dissimulazione, ma lui e il suo padrone temono sempre che nella manica dell’altro si celi un perfido pugnale. L’uomo del Rinascimento sa che a fianco della Virtus c’è, in bilico sulla sua ruota, la Fortuna; per quanto mutevole, sarà pur sempre possibile, lo conforta Orazio, correggerla con l’abilità (”arte emendare fortunam”). L’uomo dell’età barocca e della controriforma deve temere il mondo, e quindi lo “rappresenta”, lo ricostruisce secondo una visione tutta teatrale della vita e dei comportamenti, avvolti nello sfumato cangiante, in un labirintico sovrapporsi dei piani sui quali ognuno recita una sua parte secondo i suoi propri interessi: apparire è meglio che essere. L’uomo non è più padrone di sé ma è soggetto ad un destino, a una sorte ineluttabile e comunque fosca e difficile a interpretare, come le carte di una delle tante tele di giocatori e bari dipinte dal Caravaggio o da un suo imitatore. E questo destino scuro e malefico sarà di ostacolo a chi cerca di raggiungere il suo “scopo”, costringendolo a far ricorso alla “prudenza” come alla “dissimulazione onesta”. Il nuovo potere, assoluto se non ancora assolutista, dinanzi al quale il dissenso dovrà assumere necessariamente la maschera del nicodemismo, ha il nome di “Ragion di stato”, il termine impiegato per la prima volta da Giovanni Botero. E’ un termine che ha travalicato i secoli, ed è tutt’oggi di estrema attualità. E’ in nome della Ragion di stato che oggi il potere nega al cittadino l’accesso all’informazione sui più delicati gangli della sua macchina decisionale: una prassi ormai avvertita come inaccettabile per la coscienza civile, che si va ribellando nelle più varie forme, dal Wikileaks di Assange alle rivolte populiste alla Grillo. Sono risposte probabilmente inadeguate e insufficienti, sulla cui base non è nemmeno ipotizzabile edificare una società ordinata in Stato, ma restano sintomaticamente importanti. Per inciso, a introdurci, con notevole anticipo, a queste rivolte è stata indicata l’analisi del “potere” di Foucault.
Per Botero, contemporaneo del Bodin – e di appena una generazione più giovane di Hobbes – il principe non deve ispirarsi a motivi utilitaristici, ma a principi etico-religiosi (di stampo cattolico) assoluti anch’essi e inappellabili. Ben lontano dal pragmatismo del Guicciardini, Il “particulare” viene qui ridotto a zero, sentiamo già aleggiare il fantasma di Kafka, del suo Castello. Di qui le definizioni di Stato come “dominio fermo sopra popoli” e della Ragion di Stato come “notizia di mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio così fatto”. La buona reputazione che il principe guadagnerà grazie alla giustizia è la fonte del consenso dei sudditi. Il principe dovrà ispirarsi a valori pacifici, ma senza dimenticare le armi, perché la pace disarmata è debole.
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Il gesuita Gracián:
"I doveri dell'amicizia ammettono una sola eccezione: quella
di non confidare all'amico i propri difetti"
Il Seicento è considerato il secolo dei grandi moralisti francesi. Le loro massime lapidarie, i loro incisivi ritratti, gli azzeccatissimi aforismi splendono nel cielo della letteratura mondiale, l’analisi della morale umana sembra nasca con loro. Ed eccoli qui: il precursore, ancora umanistico-rinascimentale Montaigne, poi La Rochefoucauld, La Bruyère, Vauvenargues, Chamfort… Analizzavano se stessi (Montaigne), la società, le passioni, l’uomo (e, forse per la prima volta, la donna) e ne traevano argute massime, piccole “fotografie” che anatomizzavano minuziosamente, anche quando erano formato tessera, un sentimento o un’impressione. Montaigne si definì “spettatore della vita“. E, come dal palco di un teatro, la osservava e descriveva nella sua diversità e varietà sempre identica a se stessa. In certo modo, quei moralisti riscoprivano, al di là del “particulare”, la natura umana, preludevano a un nuovo umanesimo, un nuovo universalismo. La Rochefoucauld fu invischiato nella Fronda antiassolutista, cioè nella politica, ma la politica non credo appaia, nei suoi scritti, protagonista come lo è l’“amor proprio”. E va bene che per La Bruyère “lo schiavo ha un solo padrone; l’ambizioso ne ha tanti quante sono le persone utili alla sua fortuna”, una massima che sembra filtrata su Baltasar Gracián, ma insomma per quei moralisti il palcoscenico non è la corte del signore o del monarca, ma una più vasta società. Non siamo ancora alla morale borghese, mercantile, quella già miracolosamente rappresentata dalla pittura olandese alla Vermeer, ma indubbiamente il mondo si è allargato, siamo lontani dai vicoli di Napoli o dai palazzi rinascimentali delle grandi famiglie, ricche e politicamente determinanti ma in ambiti quasi sempre poco più che cittadini.
Forse, questa umanità, piuttosto estranea a una visione religiosa, più o meno consapevolmente lontana da Dio, affidata solo alla sua “prudenza”, alla sua utilitarista visione della vita, è già in nuce l’uomo di oggi: ma chi direbbe che l’uomo di massa, quello della “folla solitaria”, possa discendere dall’uomo di Accetto o di Gracián? I pessimisti, i catastrofisti di oggi indicano nell’uomo senza Dio, autoreferenziale, soggettivista e solipsista, libertino nel fondo anche quando non professo, incapace culturalmente di una socializzazione umanitaria, la causa della perdita del senso della vita. L‘eroe di Gracián, l’individuo prudente (saggio?) di Accetto, vaga sperduto nei “nonluoghi” del postmoderno. Privo di quella identità che orgogliosamente o per abile calcolo aveva cercato di affermare come arte del sé. Ma per riconquistarci dovremo tornare al Medioevo teologico invocato dai catastrofisti?
Doveva passare un secolo prima che, grazie a Giambattista Vico, la morale potesse districarsi dalle contraddizioni, dalle difficoltà dell’utilitarismo, del “particularismo” , per ritrovare un rapporto dialettico ma positivo con il Potere, questo e quella composti nell’alveo del gran fiume della storia, anzi della storia etico-politica, nella quale diventa d’un bagliore accecante la massima – vichiana appunto – della “veritas filia temporis” , cioè del fattivo operare dell’uomo.