Emanuele Farneti, il direttore seriale
Chiacchierata con l’erede (più politico che modaiolo) di Franca Sozzani a Vogue Italia
Il Diavolo non veste Prada, o forse sì ma non si vede. Unico marchio visibile, delle Adidas ai piedi, e poi una camicia su misura a righine, dei pantaloni addirittura non skinny. Un ciuffo, unica nota vagamente fashion, che appena esce dal livello di guardia viene subito tagliato, zac. Tra pochi giorni compie 43 anni Emanuele Farneti, da gennaio direttore di Vogue Italia, abbronzato ma non troppo, faccia da bravo ragazzo. Nel suo ufficio tutto mobili Eames e foto di supermodel alle pareti combatte con juicio il fantasma della predecessora, la Franca, Franca Sozzani, la fatina dai boccoli d’oro della moda italiana, scomparsa l’anno scorso.
Dalla finestra il cielo di Lombardia e l’ago e filo programmatici della stazione Cadorna, alle pareti le foto di Steven Meisel “che per venticinque anni fece le copertine di Vogue Italia, con geniale intuizione della Franca”, lui omaggia la memoria della fatina ma intanto cambia l’arredo; sulla cassettiera non c’è più la foto in bianco e nero di fiori di Mapplethorpe, bensì una di lui con Obama. Addirittura a colori.
Tra segretarie con occhialoni e capelli blu, stagiste filiformi che rispondono in americano e commessi dei bar che portano su caffè, la sede di Vogue è un sogno anni Ottanta. La trasgressione 2017 irrompe con Farneti, unico eterosessuale maschio bianco forse mai stato a capo della testata leggendaria.
Non è l’unica anomalia. L’anomalia è figlia di Gianni e di Chiara Beria d’Argentine, “famiglia di giudici, giornalisti ed editori. Mia mamma fu in prima linea all’Espresso durante gli anni di Tangentopoli a Milano. Mio nonno paterno Emanuele Farneti fu un antifascista liberale. Mio padre è stato condirettore di Panorama”. Da parte di mamma, il nonno Adolfo Beria d’Argentine fu “procuratore capo di Milano. Mia nonna materna era invece Cecilia Vallardi, della casa editrice che faceva le enciclopedie, i manuali”. Laurea in Legge, un fratello avvocato, una moglie, due figli, arriva in moto col casco tipo Yuppies, i giovani di successo. Vacanze in Grecia, “ma non nelle isole tipo Patmos”, dove si ritrova tutta la tribù della moda.
Stile più romano che milanese
Per carità, non è che sia un rude boscaiolo, ha stile, ma ha uno stile più – bestemmia! – romano che milanese, porta completi senza cravatta ma di quell’impalpabilità dei grandi sarti, una allure delle asole di Mediobanca e non certo da (orrore) Cavalli Café. Potrebbe essere insomma un banchiere o sottosegretario molto chic; una milanesità temperata, infatti è nato a Roma, e la vena serissima-gessata da grand commis si vede: seppur maniaco degli orari, feroce messaggiatore, “sono in ritardo di cinque”, dove al numero segue addirittura l’indicazione “minuti”: è un suo tipico sms accorato. E’ un ringraziatore seriale, soft-spoken, un Gianni Letta non necessariamente benevolo. Mai isterico, semina il panico semmai facendo riscrivere i pezzi anche tre o quattro volte (si è sperimentato, conflitto d’interessi) a chi non si aspetterebbe la pretesa di prosa impeccabile in tempi di sgrammaticatura disgraziata generale, soprattutto da un direttore di provenienza “leggera”.
Televisivo, sportivo, mai nei giornaloni, infatti. Ha iniziato a Seimilano, la tv del gruppo Benetton, poi Telelombardia, anche all’ufficio stampa della Tod’s per qualche mese nel 1995, a San Diego in California, “Della Valle aveva comprato il Moro di Venezia dopo la stagione di Gardini. Ci siamo divertiti molto”. Poi a GQ, e alla Gazzetta dove Pietro Calabrese lo manda alla prima direzione, il settimanale Sportweek (“direttore a 28 anni”); poi Men’s Health. E poi via coi fasti farnetiani: negli ultimi cinque anni ha diretto Flair, Icon, poi in Condé Nast nel 2014 dove va a dirigere AD, poi di nuovo GQ, e siamo a oggi, Vogue, forse quando sarà uscito questo pezzo sarà già direttore di qualcosa d’altro.
Il giornalismo visto dal tuo ufficio è un luogo meraviglioso. “Io ho iniziato prestissimo, quando ancora facevo l’università, e credo d’essere stato molto fortunato a usufruire dell’ultima fase in cui ancora il mercato tirava e si assumeva e c’era il ricambio generazionale”, dice. “Il mio primo direttore a GQ, Andrea Monti, mi ha promosso da redattore a caporedattore in tre anni. Sono cose che oggi non succedono più”. Il segreto? “Farsi il mazzo, in silenzio”.
E mietere inserzionisti, di sicuro. Il numero di Vogue di settembre, la “september issue” del peso da bagaglio a mano registra un’ottima annata (40 pagine in più di pubblicità dell’anno scorso), e questo placa i gufi appollaiati su piazzale Cadorna. Gufi che lo attendono al varco, e al freddo: quando è arrivato a gennaio, raccontano, ha trovato l’ufficio della Franca sigillato, con riscaldamento chiuso, e mazzi di fiori d’epoca, tutto pronto per diventare un Vittoriale Sozzani. Lui non era infatti tra gli accoliti della “Franca”, “credo che lei alla fine non avesse indicato alcun nome per la sua successione”, dice lui signore, atipico e atermico. Si sente di rottura, anche se non lo dirà mai, vuole “riportare il giornale a una tradizione di alto livello non solo visivo ma anche di scrittura”, al Vogue insomma per cui scrivevano Arbasino e Truman Capote. Meno foto e più parole. Il mondo della moda giustamente è stravolto, e forse per questo lui con astuta mossa direttoriale ha deciso di narcotizzarlo. Per celebrare il nuovo inizio Vogue ha preparato un party molto hollywoodiano per domani sera, è chiaramente il più importante dell’anno, i milanesi uccideranno per essere invitati. Festa “con la direzione artistica di Riccardo Tisci”, già fondamentale stilista di Givenchy, per mille persone. Ambientazioni hard nella ex stazione dello Scalo Farini, tra paradiso e inferno dantesco. Lui minimizza, “mi sembrava positiva l’idea di aprire le porte alla città, di condividere”, dice più politico che modaiolo (sottotesto: basta con i cenini della sciura Franca). Che cosa ti ha colpito, di questa redazione, tu che sei un direttore seriale? Ci pensa un po’. “Il distributore automatico: ha solo cibi biologici”.