L'Occidente perduto
Alain Finkielkraut spiega con amarezza ma con realismo perché, a forza di fiacchezze intellettuali e cedimenti morali, la nostra civiltà sia ormai destinata all’estinzione. C’entra l’islam, ma non solo
Finkie pensa cose per tutti noi abbastanza ovvie, ma le pensa a fondo e con la necessaria libertà di tono, in una situazione appartata e militante che non è la nostra, che militanti siamo sempre stati e appartati mai, facendo un giornale quotidiano, radicale e conservatore, di politica economia e cultura nel rumore sordo della battaglia. Pensa che la Francia può scomparire, magari anche l’Europa, già che ci siamo, e gli dispiace. Non si definirebbe apocalittico e nemmeno declinista, è realista, è un ottimista già gauchiste che si è informato, dunque un pessimista. Vede che “i territori perduti della République” sono sempre più estesi, formula di George Bensoussan, finito per i suoi scritti sotto processo giudiziario dell’inquisizione corretta. C’entra l’islam e l’islamofilia, ma non solo. C’entra il “rimpiazzo” demografico-migratorio, c’entra la “deculturazione” e “decivilizzazione”, formule di Renaud Camus, scrittore colto e civile, bandito dal consorzio del Bene, che è finito per isterismo provocatorio nel Front National, incolto e incivile, ma non solo. Finkielkraut lo difende con tigna, contro la sua corrispondente che lo danna e non lo legge, sostiene che è uno scrittore eccellente, che, romanzo nel romanzo epistolare, gli appartiene, vive nel suo cuore nonostante tutto, lo comprende. Il problema è che la difesa e ricomposizione di un’identità repubblicana, laica e sicura di sé e della sua lingua nazionale, e della sua storia per quanto plurale e diversa, è stata mollata dall’establishment che comanda nelle scuole, nei giornali, nella magistratura, nell’industria culturale, nel ceto politico e amministrativo. Un’immensa uniforme Rai-Radiotre minaccia il futuro dei nostri figli, nipoti e pronipoti. Ci estingueremo a forza di fiacchezze intellettuali, di cedimenti morali, di rinunce all’essere delle cose in favore dell’immagine, in una parola di cazzate.
Papa Francesco non conosce problemi o dilemmi. Non si avventura nel labirinto della responsabilità, prende l’autostrada dell’amore. Senza la minima perplessità esorta i paesi europei all’accoglienza e alla compassione, predica “una generosa apertura che, invece di temere la distruzione dell’identità autoctona, sia capace di creare delle nuove sintesi culturali”. Nulla lo scoraggia. La sua buona parola è intransigente. Interrogato sull’aereo che lo riporta dalle Giornate Mondiali della Gioventù di Cracovia sullo sgozzamento in piena messa del padre Jacques Hamel, offre questa risposta da antologia: “Non amo parlare di violenza islamica, poiché tutti i giorni, scorrendo i giornali, trovo delle violenze, qui in Italia. Quello uccide la fidanzata, quell’altro uccide la suocera… E si tratta di cattolici battezzati violenti…Se parlassi di violenza islamica dovrei parlare anche di violenza cattolica”. L’idiota che fa questo discorso non è l’Idiota di Dostoevskij, è l’utile idiota di Youssuf al Karadawi.
Alain Finkielkraut
Scherzo. Finkielkraut fa sul serio. I suoi argomenti sono profondi e vivi. Come testimoniano le due lettere che sono tradotte in questa pagina, e la condanna senza appello di Pape François, è presente nella polemica serrata un sostrato metafisico, vi si gioca o mette in ballo un’interpretazione dell’umanesimo rinascimentale come premessa delle premesse della modernità. Finkielkraut scava la terra del pensiero con l’aiuto malizioso e in controtendenza della sua amica filosofa che invece concede parecchio ai vizi del presente, anche se non lo considera un reazionario, intende salvarlo, riesporlo, fare in modo che egli stesso si riesponga in forme più accettabili al pol corr, perché il mondo in divenire del pensiero unico non sarà per lei banalmente progressista, non si giustifica interamente, è ambiguo, ma non intende star fermo, non vuole subire la storia, il passato, l’eredità, con il suo magazzino di colpe dalla schiavitù al colonialismo e tante altre, non vuole essere afferrato e strigliato dai morti, che Finkielkraut considera a giusto titolo collaboratori decisivi dei vivi e dei futuri.
All'assalto della gender culture, Finkie afferma che è il tentativo
di liberare l'uomo
e la donna
dalla costrizione identitaria della nascita
Pico della Mirandola alla fine del Quattrocento ha scritto che la dignità dell’uomo è nella sua libertà dono di Dio. Glielo ricorda Elisabeth. E lui dice che l’uomo è effettivamente nato libero ma ha cancellato la frontiera tra libertà e onnipotenza, onniscienza, si è messo da solo le catene dell’egotismo, del narcisismo, ha teorizzato la morte di Dio solo per rimpiazzarlo. In altri passi cruciali i due litigano su Rabaut de Saint Etienne, già pastore protestante, membro della Convenzione rivoluzionaria alla fine del Settecento, che disse “la storia non è più il nostro codice”, frase fantastica piena di effetti speciali, e fatale. Ma aggiungendo, dice Finkie, parole gravide di senso per il cattivo futuro dell’umanità emancipata dall’identità storica e dalla cultura Ancien Régime: “Tutto ciò che è stabilito in Francia è un coronamento dell’infelicità del popolo. Per renderlo felice bisogna rinnovare il già dato, cambiare le idee, i costumi, gli uomini, le leggi, le cose, le parole. Sì, bisogna distruggere tutto perché tutto è da ricreare”. Contro questa pretesa devastatrice onnipotente Alain propone la riconciliazione della consapevolezza del finito, dell’incompiuto che è l’uomo, libero ma non divinizzabile, e cita Hans Jonas, filosofo novecentesco: “Bisognerà rassegnarci al fatto che dobbiamo comprendere a partire dal passato ciò che l’uomo è”. Ovviamente entra in scena Edmund Burke, il primo che abbia analizzato la Rivoluzione francese da un punto di vista conservatore, e anche il rivoluzionario Jules Michelet, il grande storico nazionale “che rifiuta il pathos della rottura con la sua concezione di una storia della Francia come una città comune tra i viventi e i morti”.
La bellezza di un epistolario, e in altri termini il discorso vale anche per il genere del Journal, del diario, che è così diffuso e versatile nella letteratura francese, è che le idee diventano intime, non aneddotiche, non prive di profondità, ma sapidamente personali, si legano alle pulsioni e agli eventi con la necessaria leggerezza, con stile. All’assalto della gender culture, Finkie afferma che è il tentativo di liberare l’uomo e la donna dalla costrizione identitaria prima e ultima, quella originaria della nascita, questa evidente ipoteca che ci trascende e ci determina. I transgender sono eroi del nostro tempo, incarnazione della dignità assoluta dell’uomo divinizzato, si scelgono creaturalmente, si fanno e si disfano nel primigenio, eppure: “Sono sorpreso anche per l’assenza di paura e di tremore nella rottura annunciata con quanto tutte le umanità anteriori alla nostra consideravano un’invariante antropologica: il trittico del padre, della madre e del figlio. Sono traumatizzato dal disprezzo che rimediano coloro che fanno appello alla prudenza. E medito di continuo questo paradosso: più si allarga il campo del possibile più ci si dirige verso l’uniformazione dei comportamenti”.
“E medito di continuo questo paradosso:
più si allarga il campo del possibile più
ci si dirige verso
la uniformazione
dei comportamenti”
L’aborto non c’è, in tutto l’epistolario, sarebbe troppo. Quello è affare per i pazzi. Nemmeno la filosofia della contraccezione prima durante e dopo l’atto d’amore. Non c’è il divorzio, anche quello sarebbe francamente troppo. Eppure la pratica del matrimonio seriale, del sesso sicuro al riparo dalla paternità e maternità, e quella della morte in pancia come diritto di libertà di chi la infligge (parlo dell’uomo, della donna, del medico, della cultura generale o etica pubblica e privata) qualcosa devono avere a che fare con la decostruzione del presente in occidente. Manca un tanto di spirito volterriano per infliggere danni alla sicurezza di sé del moralismo abortista, puzzerebbe di confessionale, parlo di un’altra epoca e di un’altra chiesa, naturalmente, rovesciare il tavolo più solido intorno al quale sono seduti i salonniers della dignità dell’uomo. A suo modo e con amore, scrivendo il suo pamphlet “Contro Giuliano” per Sellerio, il mio amico di sinistra Adriano Sofri tentò di ricondurmi alla ragione quando la persi nel 2008, dieci anni fa, con la moratoria degli aborti opposta alla moratoria della pena di morte della Emma Bonino, e il nostro fu un epistolario immaginario con mille domande e mille risposte. Comunque la si pensi, ci abbiamo provato, ci ha provato.
Il libro dei due intellos è pieno di stranezze che non lo sono. Quando Elisabeth lo richiama a essere un amico dei résistants, a mostrarsi antifa, come si dice, Finkielkraut dà una risposta che vale per la bella follia narcisistica dei nostri bellaciaoisti televisivi e altrove in Italia: “Io venero i résistants, ma avrei l’impressione di profanare la loro memoria colmando verbalmente il fossato che mi separa da questi eroi”. E altrove: “Non avendo conosciuto la prova del fuoco, non voglio figurare come un implacabile resistente per procura”. Che bella lezione. No?
Finkielkraut è ossessionato dal problema della Genesi, il racconto del peccato originale. Ma non è portato per la riflessione sul religioso, sulla fede e la ragione, anche se è questo lo sfondo più o meno omesso di molti dei suoi ragionamenti. Preferisce, a buon titolo, sotto certi aspetti, prendersela con Jean-Jacques Rousseau, che ha trasferito il peccato originale dall’individuo alla società, ha fatto della morale una politica emancipatrice, e così ha generato la passione rivoluzionaria. Oppure, e con ragioni forti, con l’islam che secondo Youssef al Karadawi non ha conquistato per due volte l’Europa con le armi, ora potrebbe farcela con la predicazione e la cultura. Di qui l’impietosa e molto irriverente definizione del Papa di Roma come di un “utile idiota” del facitore di fatwa dei Fratelli Musulmani. E l’islam è certo un bel problema, di demografia, di terrorismo, di territori perduti, di resa multiculturale. Si affaccia dietro il livellamento in basso della scuola e dei suoi programmi di studi, dietro la scomparsa della lingua nazionale, prodotto del falso rispetto egalitario che nega la laicità repubblicana alla francese, la soumission di cui parlano i racconti e romanzi di Houellebecq.
Nell’ultima lettera, ricca di sentiti riguardi verso la sua corrispondente, che lo ha fatto penare per mettersi all’altezza delle sue argomentazioni, Finkielkraut sfodera Hannah Arendt contro i genericismi e i tagli, le censure della Histoire mondiale de la France, un’opera collettiva coordinata da Patrick Boucheron, studioso da Collège de France, insignito dei migliori allori dell’accademia parigina, che si è provato in mille modi a dimostrare che la continuità è una chimera, tutto è meticcio, la francité un sordido e reazionario idoleggiamento del passato, che è invece felicemente intriso di diversità e scomposizione geografica antropologica e politica. La citazione della Arendt è questa, ed è pertinente: “Anche se ammettiamo che ogni generazione ha diritto a scrivere la propria storia, rifiutiamo di ammettere che ha diritto di manipolare i fatti per metterli in armonia con la sua prospettiva”. Non male. Finkielkraut dice che lui “non si batte contro un modo di pensare che meriterebbe ben altri riguardi, ma per evitare che il pensiero divenga definitivamente privo di materia”. Alla fine i due restano ciascuno sulla propria posizione ma non smettono di considerarsi amici, il che anche non è male. Visti i tempi.
Caro Alain
(…) Mi hai spesso detto che ammiri gli umanisti del Quattrocento e del Cinquecento. Nel Quattrocento un autore padrone del latino, del greco, dell’ebraico, di Aristotele e della Cabbala, Pico della Mirandola, ha scritto un Discorso sulla dignità dell’uomo. Tu conosci questo frammento, tradotto per la sua Oeuvre au noir da Marguerite Yourcenar, che era lontana dal servirsene per svalutare gli animali. “Non ti ho dato un volto né un luogo che ti sia proprio né alcun dono particolare, o Adamo, al fine che il tuo volto, il tuo posto e i tuoi doni tu li desideri, tu te li conquisti e possieda da te stesso. La natura chiude altre specie entro leggi da me stabilite. Ma tu, che non conosci limiti, attraverso il tuo arbitrio, in braccio al quale ti ho deposto, tu ti definisci da solo. Ti ho messo al centro del mondo perché tu possa meglio contemplare il contenuto del mondo. Non ti ho fatto celeste né terrestre, mortale o immortale, affinché tu forgi la tua forma liberamente, come un buon pittore o un abile scultore”.
Che pensi della data di questa azione di grazia, 1486? (…)
Elisabeth
Cara Elisabeth,
Ma la prima parola dei tempi moderni non è anche l’ultima. Sotto l’impulso di questa nuova rivelazione, l’uomo non si è limitato a liberarsi dalle catene della religione o temporali, ha preso a rivendicare gli attributi divini dell’onnipotenza e dell’onniscienza. L’autonomia non gli bastava, pretendeva di regnare, voleva installarsi sul trono supremo divenendo padrone e proprietario della natura. Ha proclamato la morte di Dio per rinascere in lui. Questa confusione o dualità tra la libertà e il dominio appare ad alcuni come il vizio fatale dei tempi moderni. Non sarei così categorico. Se la ragione è diventata operazionale, se è stata ridotta, come ha scritto Horkheimer, a un mero strumento, è per rendere meno penosa la vita dei mortali che noi siamo. (…) Come ha scritto giustamente George Steiner le tecnologie del riparabile e del riciclabile sono “una replica alle devastazioni dell’inumano”.
Ma tu lo sai, e lo dici meglio di chiunque altro, Elisabeth, noi siamo usciti dal quadro del riparabile. E l’architetto sovrano deve mordersi le dita. Una volta compiuta l’immensa dimora, ha creduto di trovare in Adamo un soggetto capace di meraviglia e di riconoscenza. Scommessa persa: la posterità del primo uomo non ha tempo da perdere in vani complimenti. Non ammira più il mondo, lo rimpiazza. Non rende grazie per ciò che è, congeda l’essere e vive in mezzo ai suoi artifici. La parola decadenza non è adatta a questo rimodellamento. Non vediamo le cose declinare, le vediamo sparire. L’allevamento è piano piano abbandonato e rimpiazzato dalle produzioni animali. E l’ingegneria genetica darà presto ai genitori la possibilità di decidere in anticipo delle caratteristiche dei loro figli. Per dirla in termini heideggeriani, “tutto si presenta secondo la possibilità del fare e dell’essere fatti”. Ma programmare la propria discendenza è spogliarla del potere di incominciare, è attentare alla libertà conferita all’uomo da Pico della Mirandola. Per forgiare la sua discendenza, la scienza fornisce a Adamo gli archetipi che mancavano al perfetto artigiano per forgiare Adamo. (…)
Alain