Fare la conoscenza di Bortolotto. Un programma di sala
L’intelligenza e il fiero cipiglio sono le due cose che colpiscono coloro che fanno la sua conoscenza. Provate infatti a leggerlo: una sfida all’intelligenza, un’avventura della conoscenza
Due cose, e tosto, colpiscono coloro che fanno la conoscenza con Mario Bortolotto: l’intelligenza e il fiero cipiglio. Non dico l’antipatia, perché quando gli gira (abbastanza di rado, a dire il vero) sa essere spiritosissimo e affascinante al primo incontro. Comunque, ammirazione e soggezione sono garantiti non appena le sue pupille cilestrine, acuminate e taglienti come lame di espada, si posino su chicchessia. E non illudetevi di farla franca stornando la conversazione verso argomenti diversi dalla musica cólta, suo dominio professionale: di filosofia, di letteratura, antica e moderna, occidentale e orientale, di arti visive, di storia e geografia, di religioni e misteri, di vini, persino di medicina, convenzionale od omeopatica, sa tutto quello che si deve sapere. Anche per i manicaretti nutre una passion predominante – “noi siamo quello che mangiamo, oltre quello che ascoltiamo” –, ma questo, forse, è l’unico ramo dello scibile in cui per lui la quantità ha la meglio sulla qualità.
Gusto sceltissimo di chi “non ha letto tutti i libri del mondo semplicemente perché, a un certo punto, il suo fiuto si è così affinato nel tempo da consentirgli di scartare in partenza molti libri di cui sa già con sicurezza che è proprio inutile la lettura” (cito dalla mirabile intervista estortagli da Ludovica Ripa di Meana – che il Foglio ripubblica qui sopra – senza dubbio il ritratto più schietto e penetrante che di lui si conosca), memoria prodigiosa, connessioni a velocità supersonica tra àmbiti distinti e lontani, ironia che non risparmia alcuno e alcunché, allusioni che definire criptiche è un pallido eufemismo: imbattersi in Bortolotto e provare semplicemente, letteralmente paura è tutt’uno. Esempio vivente di Sublime dinamico kantiano, volendo potrebbe annientarci con un battito di ciglia, e invece ci offre una dimostrazione palmare delle sommità alle quali può giungere la mente umana. Provate infatti a leggerlo, articoli di giornale o di rivista, programmi di sala per teatri e società di concerti, saggi specialistici, libri: una sfida all’intelligenza, un’avventura della conoscenza.
Dopo aver pubblicato per Ricordi ed Einaudi, dalla fine degli anni Settanta è passato ad Adelphi (chi altri?), che di lui ha in catalogo: l’edizione rivista e accresciuta di “Introduzione al Lied romantico”; “Consacrazione della casa”, raccolta di interventi su opere di Berlioz e Wagner, Puccini e Debussy, Strauss e Berg, Schoenberg e Janácek, ČCajkovskij e Stravinskij; “Dopo una battaglia. Origini francesi del Novecento musicale” (Parigi culla del Neoclassicismo); “Est dell’Oriente. Nascita e splendore della musica russa”; le monografie su Wagner (“Wagner l’oscuro”) e Richard Strauss (“La serpe in seno”); la ristampa di “Fase seconda. Studi sulla Nuova musica” (quella degli anni Cinquanta e Sessanta: libro epocale, uscito nel 1969 e tuttora oggetto di discussioni accesissime); le raccolte di saggi e articoli vari (“Corrispondenze”) e di pezzi destinati proprio al Foglio (“Fogli multicolori”); le introduzioni (a Nietzsche, a Glenn Gould, a Feldman) e le traduzioni (dal tedesco e dal francese, Adorno e Cioran tra gli altri). Un’altra silloge di scritti sparsi, vere e proprie rarità ripescate in biblioteca, in buona parte risalenti alla sua prima, esplosiva, inesauribile fase produttiva, è in preparazione per i tipi della casa milanese.
Bortolotto non appartiene alla categoria dei geni precoci, ma a quella dei geni che maturano gradualmente e implacabilmente. Nasce e cresce a Pordenone, primo della classe in tutte le classi, dalle elementari al liceo; una cugina che studia il pianoforte lo induce all’emulazione: si diplomerà da privatista a Venezia. Si iscrive a Medicina, prima a Padova, poi a Pavia; la laurea in Filosofia (con una tesi su Nietzsche e il concetto di décadence) seguirà molti anni dopo, sempre a Pavia. Sul finire degli anni Cinquanta il compositore Franco Donatoni lo conduce con sé ai corsi estivi di Darmstadt, culla della Nuova musica: Bortolotto ne diventerà l’esegeta principe in Italia, pur tenendosi sempre a debita distanza dall’esaltazione aprioristica di certa sinistra, dall’“impegno” cosiddetto. Anche i suoi commentari ad Adorno (filosofo e musicologo) si allontanano dall’interpretazione ufficiale, con grande scandalo, oggi come ieri, degli ortodossi. La sua mente si accende per il Nuovo, di qualsiasi epoca e in qualsiasi forma si presenti.
Verso i 33 anni, dopo lunga incubazione e studi accanitissimi, intraprende finalmente l’attività di storico e critico della musica: comincia indagando Chopin, Petrassi, Nono… Verso i 45 approda all’università: Venezia, Bologna, Salerno, infine Roma. Idea rassegne di musica contemporanea al Festival pianistico di Bergamo e Brescia e a Taormina; per un decennio è direttore artistico all’Orchestra “Scarlatti” della Rai a Napoli. Fonda una rivista (Lo spettatore musicale), scrive per i giornali (le collaborazioni più durature sono state quelle con L’Europeo, Amadeus e Il Foglio). Vive a Roma, ma viaggia di continuo per ascoltare musica o conoscere il mondo: “Sceglierei di essere prima che un critico, un viandante”. I suoi maestri, di metodo e di stile, han nome (qualcuno alla rinfusa) Giorgio Pasquali, Giorgio Manganelli, Roberto Longhi, Mario Praz, Gianfranco Contini; poi, certi analisti musicali tedeschi e francesi; tra i critici predilige Giorgio Vigolo e, soprattutto, Fedele d’Amico, anche se il carteggio più sapido dovrebbe essere quello (tuttora da studiare) con Massimo Mila. A costui prese a scrivere con assiduità quando era ancora un ragazzo, per fargli le pulci o esprimere il suo disaccordo. Perché Bortolotto non sa cosa siano il timore reverenziale, l’adulazione, la falsa modestia, il low profile: quando, adolescente, si presentò all’esame di storia della musica in conservatorio era così preparato e sicuro di sé che il presidente della commissione, Gian Francesco Malipiero, compositore celebre ma poco o nulla apprezzato dal Nostro, lo interruppe con un “Eeeh vecio, come la sai lunga!”.