L'indispensabilità del superfluo
Ci si esalta per la brevità, ci si affeziona alla lunghezza. Twitter aumenta i caratteri e i dogmatici della sintesi finiscono sotto processo. Perché è un piccolo lusso poter raddoppiare le possibilità di dire cose totalmente non necessarie
La sintesi ha perso e Twitter ha raddoppiato i caratteri. Da centoquaranta, la misura ispirata alla preistoria degli sms, a duecentottanta, non ancora per tutti. Le caratteristiche che ci avevano entusiasmato – brevità, precisione, efficacia, velocità – ci hanno stufato, affaticato, frustrato. Troppo poco spazio, troppo impegnativo: poche cose da dire e dette male. Meglio riposarsi su Facebook, sfogliando lentamente le foto e con la libertà di essere prolissi, vaghi, incomprensibili ma comunque lunghissimi. “Scusami per la lunghezza della mia lettera, non ho avuto tempo di scriverne una più breve”, è l’antica citazione di Pascal sempre convincente sulla bellezza della sintesi e della concisione, che non è da tutti e provoca, esattamente, un senso di frustrazione. Di non potersi spiegare meglio, aggiungendo quella frase che sicuramente avrebbe convinto chiunque del nostro ragionamento. E allora per un po’ abbiamo cercato di barare, togliendo lo spazio dopo la virgola, abbreviando le parole con un effetto orripilante, k al posto di ch per guadagnare un carattere, e facce e cuoricini al posto di parole: il risultato era meno dignitoso della scrittura, ma potevamo aiutarci con le foto, con i link, e infine con gli insulti. Agli insulti non servono molti caratteri, sono come le scritte sui muri, indispensabili esempi di brevitas, ma a lungo andare ripetitivi.
E’ stato il motivo per cui la noia ha avvolto molti utenti di Twitter, è stato il recinto stretto a renderlo marginale quando doveva essere unico ed elitario (trecentocinquanta milioni di utenti che non crescono e che si dimenticano di tuittare). E’ difficilissimo scrivere belle didascalie, fare bei titoli, e poi succedeva una cosa strana: si rimandava a Facebook per le spiegazioni, con le foto dei post pubblicati là. Per gli approfondimenti di una discussione, per mostrare con quanta raffinatezza ci si era mandati a quel paese. Per rimediare alla freddezza dell’informazione di Twitter, per sentirsi ancora nel mondo, con il tepore delle foto dei piatti di spaghetti. Ma anche perché la raffica di notizie non funziona, o funziona solo con una ristrettissima cerchia di utenti, funziona come un elenco, come un catalogo di contatti da cui farsi dettare la lista delle cose importanti della giornata, ma poi serve di più.
Ci si esalta per la brevità, ci si affeziona alla lunghezza. Si vuole approfondire, discutere, raccontare, non smettere, costringere gli altri a dire: scusa devo scappare, a casa mia c’è un incendio. Come quando incontriamo un amico per strada, e quello ha la malaugurata idea di chiederci come stiamo: gli rovesciamo addosso, oltre al divorzio dei nostri genitori quando eravamo piccoli, anche l’esame per la patente della figlia grande e i regali di Natale che abbiamo deciso di comprare in anticipo. Sentiamo di non avere tempo, e quindi la brevità sarebbe essenziale, perfetta, l’unica strada, ma vogliamo decidere noi dove soffermarci, quanto divagare, quanto arrivare in ritardo. Centoquaranta caratteri non hanno spazio per il superfluo, e invece il superfluo è indispensabile, ci gratifica, ci appassiona. Duecentottanta caratteri non sono molti, ma offrono un’idea di spreco che ci rassicura. Un piccolo lusso, raddoppiare le possibilità di dire cose totalmente non necessarie, quindi dirle più a lungo.