Storia triste y final della scrittura
Ma quale ragionamento entrerà mai nei 280 caratteri di Twitter?
Ora che Twitter progetta di raddoppiare lo spazio e di fare entrare nel messaggio non più 140 ma addirittura 280 caratteri, tutti a chiederci se abbiamo conquistato una maggiore libertà di espressione, se perderemo o no quel bene prezioso che era la sintesi, se riusciremo finalmente a esprimere concetti più organici e articolati, stando comunque bene attenti, Dio ce ne scampi, a non cadere nella deriva sbrodolatoria, nel cialtronismo digitale, in un nulla più ruffiano e accattivante sol perché più spazioso.
Un dibattito alla moda, diciamolo. O un modo come un altro per accantonare la domanda centrale. Che è questa: oggi che abbiamo tutti gli occhi inchiodati sullo smartphone con tastiera incorporata; oggi che trascorriamo metà dei nostri giorni a scambiarci messaggi con amici e fidanzate, con mogli e amanti, con i colleghi dell’ufficio e con i compagni di palestra, con gli ex compagni di scuola e con il tipetto spiritoso conosciuto due ore fa al bar, oggi che cosa è diventata per noi la scrittura?
Tolti gli stucchi nobilissimi che saldano l’arte dello scrivere alle ambizioni letterarie e accantonate le immagini scolastiche delle fatiche alle quali si sottoponevano nottetempo i giganti del pensiero, come Montaigne o Leopardi, l’unica affermazione che viene subito da fare è che tutti hanno diritto a scrivere quello che vogliono: dal barbiere al salumiere, dal professore al muratore, dal poeta allo sfasciacarrozze.
Detto questo, bisogna però fare i conti con quella nuova filosofia della scrittura che l’avvento di internet ha portato in auge con una epopea triste e mistificante, popolare e insignificante. E’ la filosofia dell’insulto, dello sfregio gratuito, dello sberleffo antipatizzante, dell’aggressione vendicativa, dell’ingiuria rancorosa. O dello sfogo, di un semplice e immotivato sfogo.
Quando eravamo ragazzi nella Palermo di chitarra e coltello e c’erano ancora i cessi pubblici a piazza Politeama, ci incuriosiva un dettaglio: tra le scritte prive di senso, stampigliate sui muri con un chiodo o un punteruolo, si trovava sempre e con la costanza ossessiva dei mutevoli autori, il noto bisillabo “suca”. Che, a ben guardare è una parola volgare ma non tanto; semmai una scempiaggine o, peggio ancora, una banalità rivestita da chissà quale sottofondo sessuale, da chissà quale frustrazione, da chissà quale istinto represso. Chi l’ha scolpita nell’intonaco a chi intendeva indirizzarla? A nessuno in particolare, ma universalmente a tutti gli avventori occasionali dei cessi pubblici. Quella parola così immonda e così urticante, era nient’altro che uno sfogo anonimo, irrazionale e in fondo anche miserabile. Che non richiedeva disprezzo, ma pietà.
Al picciottazzo o al vecchio bavoso che aveva scritto quel “suca” i 140 caratteri messi a disposizione da Twitter sarebbero sembrati una piazza d’armi, uno spazio enorme. Perché lo spazio è stretto o ampio in rapporto al concetto che si vuole esprimere. E il concetto, per essere tale, deve nascere da un ragionamento. Leonardo Sciascia, che di scrittura e di lumi concettosi se ne intendeva parecchio, lo ha annotato – con quel sottotono ironico e beffardo – tra le pagine di Una storia semplice, che è certamente il suo romanzo più problematico. Il protagonista è un vecchio professore di liceo che per una vita ha insegnato italiano e che per un gioco perverso delle cose si trova impigliato in una stranissima vicenda giudiziaria. Il magistrato che deve interrogarlo è, guarda caso, un suo ex alunno pieno di boria e pregiudizi. Il quale, per scongelare l’imbarazzo di quell’incontro, non trova di meglio che ricordare al suo ex professore la crudeltà dei voti bassi che gli venivano dati sui compiti d’italiano. Un dialogo tesissimo che spinge il professore a riprendere i toni del docente e a lanciare sul tavolo una pesantissima allusione: “L’italiano non è l’italiano: è il ragionare”, dice al suo ex alunno diventato procuratore. “Con meno italiano lei sarebbe forse ancora più in alto”. Una battuta feroce. Di fronte alla quale “il magistrato impallidì e passò a un duro interrogatorio”.
Se è vero che non c’è scrittura e non c’è lingua italiana senza “il ragionare” è altrettanto vero che non c’è ragionamento e non c’è sapere senza il dubbio. E qui anche i 280 caratteri messi a disposizione da Twitter cominciano a diventare una quisquilia, un luogo geometrico dell’inesistenza. Perché il dubbio è una cosa seria oltre che un dono di Dio. L’uomo che vanta solo certezze ha un pensiero per definizione sintetico. Quasi rinsecchito. Lo spiega bene Giovanni Macchia, il grande francesista che, dopo avere scavato ogni angolo degli Essais, ha trovato in Montaigne il più autorevole glorificatore della potenza del dubbio. Pensate, concludeva Macchia, all’effetto magico che Montaigne e Galileo hanno avuto sulla civiltà dell’occidente: gli uomini finirono “con lo strappare dalle mani degli scienziati i telescopi per puntarli sui loro aguzzini, sui principi, sui funzionari, sui pubblici predicatori della morale. Sono questi i benefici disastri del dubbio, vi pare che sia poco?”.
No, non è poco. Dubbi e ragionamenti sono tuttavia macchine complesse dell’intelletto e non sono certamente adatti per i moduli di scrittura offerti in questi “tempi feroci e avviliti” da Twitter e da tutti gli altri strumenti inventati dal web per dare a ciascuno l’illusione di vivere una sua propria libertà d’espressione. La scrittura diventa sempre più comunicazione – anche del nulla, va da sé – e solo comunicazione. Certo, c’è il mondo di nuvole e di infinito creato dai libri; ci sono ancora gli articoli di approfondimento che i giornali riescono ancora a regalare ai propri lettori. Ci sono i saggi e i trattati che la società scientifica produce con sempre maggiore puntiglio e meticolosità. La scrittura non è morta, ci mancherebbe altro, ma i moduli che s’avanzano dietro la cultura dei social sono lì a minacciare una desertificazione del dubbio e del ragionamento. Che poi sono anche gli strumenti di una passione civile, di un vivere comune che richiede tolleranza ma anche idee forti, sanguigne, persino divisive se necessario. Scrivere, annotava Gesualdo Bufalino in Cere perse “non significa solo adulare i minuti con la cosmesi dell’immaginario”. Significa anche schierarsi: “Forse macchiarsi le mani d’inchiostro è come macchiarsele un poco di sangue: uno scrittore non è mai innocente”.
Chi sarà mai capace di racchiudere una colpa o una innocenza in 280 caratteri?