Il coraggio di scegliere Re Ruggero di Szymanowski per la prima a Santa Cecilia
Idee chiare e livello artistico alto per un'opera poco nota
Roma. Dopo ci sarà la critica, i commenti degli esperti e del pubblico. Ora, a poche ore dalla prima della stagione sinfonica di Santa Cecilia, una certezza s’impone: ad Antonio Pappano, Michele Dall’Ongaro e a tutta l’Accademia non manca certo il coraggio. Quello di aprire il sipario sulla nuova stagione (si parte appunto questa sera con due repliche il 7 e il 9 ottobre) con l’opera Re Ruggero di Karol Szymanowski. Un lavoro in lingua polacca, del 1926, proposto in forma semiscenica con regia e proiezioni in diretta dei Masbebo (alias Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni). Un lavoro meno noto rispetto a partiture celeberrime che si prestano meglio ai riflettori delle prime stagionali.
Quando però le idee sono chiare, il livello artistico alto e quando la partitura ha uno spessore musicale indiscutibile, si può – finalmente – proporre al pubblico tanta altra, e poco conosciuta, bella musica. In verità Pappano da tempo dirige nella sua “casa londinese”, il Covent Garden, questa musica. Uno dei pochi insieme a Andrew Davis, Charles Dutoit, Simon Rattle a immergersi in maniera totale e contagiosa in Szymanowski. Visionario nel vedere tra i pentagrammi un capolavoro da far conoscere e diffondere, infatti nel lontano 2021 (vicinissimo per le agende delle star musicali della classica) lo eseguirà anche alla Scala di Milano. Quella di Re Ruggero è la trasposizione musicale dell’uomo del Novecento, quello raccontato e studiato da Freud, nel suo inconscio misterioso e vario. L’uomo del “secolo breve”, inquieto nei labirinti di un mondo che crolla insieme alla sua anima. Quell’uomo è lo stesso Szymanowski, coltissimo e raffinato intellettuale, morto in un sanatorio di Losanna dopo una vita dissoluta, che si racconta creando una scrittura stratiforme per colori, armonie e accostamenti timbrici. Corposa come potenza fonica nel forte, rarefatta nel piano. Su questi strati serpeggia il cromatismo che in ogni battuta rende la “tonalità” (o quel poco che vi rimane) sempre mobile e instabile. Una musica densa dal punto di vista psicologico, filosofico e intellettuale, il cui caleidoscopio di citazioni non stupisce perché il musicista polacco, che proveniva da una famiglia di cultori della materia, aveva fatto sue pagine e pagine di musica, dotato com’era di non comuni doti assimilative. La partitura è costellata di riferimenti all’arcaico (bordoni, modi antichi), al popolare (le Mazurke del conterraneo Chopin) ma anche alle suggestioni a lui contemporanee come la poetica impressionista e simbolista (ma non espressionista pur nelle iperboli di alcuni suoi passaggi compositivi), a Debussy e Ravel. Fino ai contrasti tipici della musica di Skrjabin, la cui vicenda umana è molto simile a quella del musicista polacco. Non si dimentichi nemmeno che nel 1924 (due soli anni prima dell’esecuzione di Re Ruggero) ci lasciava Giacomo Puccini e si ascoltava, commossi, l’incompiuta Turandot. Il compositore con la sua più importante opera palesa l’attrazione che suscita in lui la cultura mediterranea e quella orientale. Il protagonista infatti è Ruggero II d’Altavilla, che regnò in Sicilia e nell’intero meridione d’Italia nel secolo dodicesimo, contribuendo al fiorire di queste terre. Il normanno nato a Mileto favorì l’ambiente multiculturale attorniandosi di collaboratori provenienti dalle culture più diverse.
L’opera, divisa in tre atti (che Pappano ha deciso di eseguire senza alcuna interruzione), si svolge in tre diverse località. La prima è il Duomo di Palermo, dove si discute dell’allontanamento del popolo dalla fede e si palesa questo pastore, a cui tutti si stanno convertendo, che profetizza una chiesa fatta di bellezza e piacere. E’ l’avvento del paganesimo. Il secondo atto si svolge nel palazzo orientale di re Ruggero dove c’è l’incontro tra il monarca e il pastore che prova ad ammaliare il re e non riuscendoci porta via l’oramai sedotta Regina Roxana. Il terzo atto è sulle rovine di un anfiteatro greco dove Re Ruggero è ormai solo dopo un baccanale notturno al quale riesce a resistere. Un’opera attualissima non solo per questo incontro di diversi (alla fine dell’opera Ruggero rimane solo con il fido Edrisi, suo consigliere mussulmano), ma per la descrizione di una cultura che sembrava intramontabile perché fondata su precisi valori, l’“eterocrazia” di Ruggero, un melting pot che si sgretola inesorabilmente.
Intanto, in chiusura d’opera, il sole s’innalza in cielo: è il dio Apollo. Ruggero è illuminato dalla sua luce. Rimane poco chiaro se il re si sia lasciato vincere dalla tentazione pagana o ha mantenuto fede ai suoi buoni princìpi.
Universalismo individualistico