Un sogno rosso a Teheran
Innamorarsi di un abito sotto il chador. Come si vestono le donne musulmane: un racconto e un saggio
Qualunque ragazza sa che ci si può innamorare di un abito rosso. Ma che cosa succede se la folgorazione tocca una musulmana analfabeta e coperta dalla testa ai piedi, che vive chiusa in se stessa e infagottata di nero in una città europea del tutto sconosciuta? Una donna così, confinata nell’assenza di colore, incontra quel desiderio scarlatto all’improvviso, guardando una vetrina mentre vaga come un’anima inquieta per le strade di Belleville, a Parigi, senza sapere una parola di francese. E, dell’abito rosso, non riesce più a liberarsi neanche in sogno, dove comincia ad ardere un’altra, proibita idea di sé, giacché mettere un vestito è indossare una storia.
Sull’antinomia del nero e del rosso, sulla forza delle idee e sul potere degli abiti, la scrittrice franco-marocchina Lamia Berrada-Berca ha costruito un apologo (Kant e il vestitino rosso, pubblicato da e/o, traduzione di Silvia Manfredi) che rimanda a classici dell’illuminismo e della letteratura francese raccolti in appendice: ci sono estratti da Che cos’è l’Illuminismo di Immanuel Kant, dalla Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina di Olympe de Gouges, da Indiana di George Sand, da Le Saccenti di Molière, dal Dizionario filosofico di Voltaire, dalle Lettere persiane di Montesquieu… E’ un piccolo libro questo, che con pochi tratti mette il lettore in una posizione difficile: nella testa di una moglie musulmana, che si chiama Aminata e non sappiamo esattamente da dove venga, ma che percepiamo vivere totalmente coperta sotto un niqab o sotto un burqa, come se la stoffa definisse il perimetro di una cella dove occhi spaventati e curiosi sbirciano il mondo da una fessura. Lamia Berrada-Berca vuol metterci nei suoi panni e far sentire – non solo capire - che cosa sia la minorità di una donna adulta, vivente sotto tutela e che non riesce a fidarsi di quello che pensa: anche un niqab corrisponde a un’idea di sé, presuppone un carattere, diventa una specie di seconda natura. Gli abiti non sono vuoti e, per capire la folgorazione del vestito rosso, bisogna per un momento essere Aminata, lasciarsi sedurre, contare i peccati e credersi improvvisamente pazza: dalla nascita lei sa di dover proteggere gli uomini da se stessa nascondendo il corpo, per evitare che i loro desideri si liberino come dèmoni con inevitabili conseguenze. Il vestito rosso è sovversione totale, follia, perché tenta la sposa a esistere per se stessa e perché fa saltare un limite necessario: nella forma degli abiti delle donne passa la linea che separa l’ordine sociale dal caos belluino, l’uomo dalla scimmia.
L’idea non è nuova ma mette a fuoco efficacemente l’eccesso di significato attribuito al vestire nel mondo musulmano, dove l’attenzione ossessiva alle regole è costitutiva di un codice morale e sociale. Ecco perché la “pious fashion” è così importante e perché, nei paesi musulmani, le donne adorano la moda che ridisegna le regole con eleganza o che allude alla trasgressione. Su questo argomento, Elisabeth Bucar, docente di studi sulle religioni alla Northeastern University, ha fatto un’indagine comparata in tre paesi musulmani importanti e non arabi – Iran, Indonesia e Turchia: il suo libro, Pious Fashion, How Muslim Women Dress, da poco pubblicato da Harvard University Press, indaga una dimensione tutta da scoprire. Si tratta di mondi che non praticano forme estreme come quella appena descritta, la velatura integrale carceraria – come il niqab arabico e nordafricano e il burqa afghano – e che sono arrivati o tornati per strade diverse all’islamizzazione dell’abito.
Elisabeth Bucar arriva a Teheran per studiare il persiano e come tutte – straniere incluse – deve mettere l’hijab, la velatura che copre i capelli lasciando il viso scoperto: è obbligatoria, senza si può essere arrestate e fare due mesi in prigione, si deve pagare una multa, ma lei sa e arriva vestita in modo dimesso e con un fazzoletto nero in testa; si sente goffa, pensa d’essere non meno ma più visibile agli occhi degli altri… e in un certo senso ha ragione, ha esagerato in modestia, adeguando l’abbigliamento alla sua immaginazione, mentre le iraniane sono colorate, truccate, decisamente più eleganti. Esce dall’aeroporto e in strada vede di tutto: un’accozzaglia di stili, dal tradizionale manto nero detto chador, che arriva fino ai piedi ma lascia il viso scoperto, al grungy punk: tutte hanno qualcosa in testa, ma per il resto ognuna fa da sé. Bucar resta abbacinata dai rossi e dai turchesi, incuriosita dai motivi ornamentali fatti di teschi sulle sciarpe e sulle Tshirt delle ragazze.
Qualche mese dopo, quando arriva in Turchia con l’occhio abituato all’Iran, la sensazione visiva registrata da Bucar è straniante: qui il velo è facoltativo ed è militante, lo portano solo le donne che vogliono ( o devono) rendersi visibili come musulmane. Le iraniane drappeggiano l’hijab e cercano di guadagnare centimetri di pelle nuda ovunque possono; le musulmane turche, al contrario, stanno ben attente a coprire interamente anche il collo e indossano foulard di seta aderentissimi, i loro tesettür – il velo, di cui fu interdetto l’uso nelle scuole e nei luoghi pubblici ai tempi di Atatürk – sottolineano la forma della testa e le signore tengono moltissimo ad apparire sofisticate e chic, non vogliono essere declassate come retrograde o come peggio vestite rispetto a quelle dell’élite kemalista secolarizzata.
Naturalmente, a Istanbul Elisabeth Bucar si libera subito dell’abbigliamento adottato in Iran, ma si rende conto che quegli abiti, portati per un certo tempo, hanno mutato la sua percezione estetica: trova insopportabili le turiste in canotta (di cui pure lei, negli States, ha i cassetti pieni); si è abituata a spazi pubblici organizzati con criteri di apartheid sessuale e ora prova un enorme fastidio a salire su mezzi di trasporto affollati con sconosciuti sudati che le si appiccicano addosso … In lei comincia a vacillare l’idea che il velo sia solo imposto e non (anche) una scelta individuale protettiva, in un certo senso l’abito modesto la fa sentire meno esposta: è talmente intrigata dall’analisi di quello che le capita, mutando d’abito in paesi diversi, che decide di farne l’oggetto di uno studio, condotto con metodologia etnografica e intervistando in focus group donne soprattutto giovani, tra i diciotto e i trent’anni, opinion leader locali, come designer o fashion blogger, e autorità estetiche e morali… Il fatto che, per riferire opinoni, abbia spesso dovuto usare pseudonimi dice subito da che parti siamo.
Quando Bucar vola in Indonesia, lo stato musulmano più popolato e in crescita demografica rigogliosa, si trova in un contesto ancora differente rispetto al già visto: le indonesiane storicamente non coprivano il capo, la bellezza giavanese voleva capelli e spalle scoperte, per loro non c’è un ritorno alla tradizione che giustifichi l’imposizione di un velo in testa. In Indonesia, dove l’abbigliamento si è trasformato in manifesto politico contro il regime di Suharto – come fu in Iran contro lo Shah – e dove la cravatta maschile è finita fuori legge come “guinzaglio dell’America”, le ragazze indossano facoltativamente il jilbab – termine ancora diverso - mentre le loro madri non lo facevano affatto. Per loro, che amano i colori pastello e declinano l’abito con pizzi, ruches e volant, questa moda odora di nuovo e ha qualcosa di trendy.
Insomma, anche nella globalizzazione musulmana c’è qualcosa di babelico e l’abito a norma è un manichino vuoto: nei tre paesi studiati la velatura poggia su culture e storie diverse e non solo su precetti religiosi, i termini usati per indicarla hanno radici differenti ma tutte di origine araba – in paesi che arabi non sono - mentre i riferimenti ai sacri testi utilizzati per giustificarla non sono gli stessi.
In Iran, dove l’ordine teocratico è imposto per legge, la moda è in continua tensione verso il superamento del limite e il chador è sulla testa delle donne più povere e, come segno di distinzione a valenza ideologica, sul capo di quelle che aspirano ad alte cariche pubbliche; nell’uniformità, la differenza sociale è segnata dalla qualità dei tessuti, dai brand degli accessori, dalle sciarpe firmate. In Indonesia, dopo la fine della stagione coloniale, il jilbab è entrato e uscito dagli armadi a seconda del regime in carica; qui – dove l’Islam convive con i costumi giavanesi e la spiritualità sufi – ora le ragazze si modellano sul corpo vestiti che non cadono informi, anche per merito del nuovo know-how professionale della moda. Stigmatizzato storicamente, il tesettür turco è invece il proclama identitario di gruppi sociali in ascesa, per le strade di Istanbul cresce il numero delle donne che lo portano, ci sono fashion magazine ad hoc e un business in concorrenza con gli stili di abbigliamento di standard europeo. E, finché c’è concorrenza, c’è gara per conquistare il mercato e ricerca sulla qualità del prodotto. Nei focus group costruiti da Elisabeth Bucar, alle ragazze non piace lo stile proposto dal magazine di moda islamica Âlâ, il tesettür è ancora molto controverso, si preferisce decisamente guardare Vogue. E’ interessante ascoltare il perché: in Âlâ, spiega una delle intervistate, non c’è esplorazione di nuove tendenze, ma solo registrazione dell’esistente. La “pious fashion” non ha ancora ali per volare.
Ma perché, in questa indagine, Elisabeth Bucar ha adottato la definizione di “pious fashion” - concetto che in società secolarizzate si restringerebbe agli abiti del clero - anziché il termine d’uso più comune, “modest fashion”? Perché quest’ultimo – spiega - appare circoscritto a uno stile pensato per scoraggiare l’attenzione sessuale mentre in quei vestiti c’è anche altro, qualcosa che rimanda alla pietà religiosa, non solo come devozione all’Islam, come sottomissione, come disciplina del carattere e come docilità sessuale, ma anche come pubblico riconoscimento del buongusto, punto d’incontro tra etica ed estetica, tra bellezza e virtù. L’idea dalle quale siamo partiti, e cioè che l’attenzione ossessiva al vestire delle donne sia una delle forme di arretratezza dell’Islam, legata a una visione ipersessuata del corpo femminile, all’autrice di questo libro appare datata e non troppo convincente.
Elisabeth Bucar usa la definizione di “pious fashion” anche come provocazione, visto che in sostanza è contraddittoria: la moda è consumo, evanescenza volubile, desiderabilità, qualcosa che passa e va trasformandosi… se si mette a braccetto con la pietas religiosa, non può andare molto lontano. Il contrario – la pietà religiosa affidata a sarti e fashion designer – è anche peggio e appare un’ associazione improbabile per conservare qualsiasi fede. In altri termini, lo sviluppo della “pious fashion” corrode quello che dovrebbe affermare, l’adeguamento a un ordine simbolico teocratico. Se il parlare di moda – fiorentissimo sul web di quei paesi, mentre su YouTube pullulano i tutorial per acconciare l’hijab in modo più grazioso, sbarazzino, importante o casual a seconda delle occasioni e dei dress code richiesti – equivale a una discussione su cosa significa essere una buona musulmana, qualcosa non torna.
Alla fine degli anni Settanta, nei paesi di cui stiamo parlando, l’islamismo promuoveva stili di vita anticonsumisti per combattere la corruzione morale del materialismo, ma alla fine del Novecento la borghesia islamizzata ha cominciato a incoraggiare i consumi con l’idea che per questa strada gli ideali religiosi si sarebbero tradotti in forme estetiche e stili di vita. E’ qui che è decollata la “pious fashion”: in Turchia – rileva Bucar – la commercializzazione industriale del tesettür ha consentito di accumulare un capitale finanziario e di cultura sufficiente a produrre oggetti abbastanza belli e desiderabili, quindi concorrenziali. Per l’industria della moda a ogni livello si sono aperti nuovi mercati e gli stilisti, inclusi gli italiani, ci si sono buttati, lo scorso anno è stato lanciato Vogue Arabia.
L’ambiguità della “pious fashion” a me pare il punto più stimolante di questo libro, cui il Washington Post ha rimproverato non a torto un eccesso di semplificazione nella ricostruzione delle vicende storiche dei paesi considerati. Elisabeth Bucar sostiene che la moda sta diventando sempre più un terreno negoziale: secondo lei, l’attenzione sproporzionata al modo di presentarsi delle donne in pubblico, trasforma gli abiti in opportunità perché, se la “pious fashion” cambia l’immagine femminile, questo può influenzare anche l’idea della femminilità e la nozione di pietas che le corrisponde. D’altra parte, se l’etica religiosa detta i codici di abbigliamento, il modo in cui si portano gli abiti può essere usato anche per criticarla. Non so se abbia ragione, ma è un po’ come quando si diceva che i jeans e la Coca-Cola avrebbero fatto cadere il Muro di Berlino. Mi auguro che serva anche alle ragazze che sognano un vestito rosso, nascoste sotto un niqab.