Un brindisi per Brin
Ha inventato il giornalismo di costume senza cadere mai nel conformismo. Un libro celebra il suo sguardo unico sul mondo
Nel 1937, sedicesimo anno dell’era fascista e primo del Minculpop, il ministero della Cultura popolare, un giornalista “conservatore in un paese senza più niente da conservare” affida una rubrica a una giornalista miope che ha le gambe lunghissime e parla cinque lingue. Il giornale è Omnibus, lui è Leo Longanesi, lei è Maria Vittoria Rossi, fino ad allora firmatasi Mariù, Marlene e/o Oriane (omaggio a Proust) sul Lavoro, quotidiano socialista di Giovanni Ansaldo, sul quale, pochi anni prima, aveva esordito con un pezzo, “La chiusura dei bagni”, che racconterà poi di aver spedito, al capo ufficio pubblicità, nel giorno della nascita del suo dodicesimo figlio maschio: “Sarà contento, avevo pensato” – ottant’anni dopo, cioè oggi, i freelance in cerca di collaborazioni monitorano le bacheche Facebook dei caporedattori in cerca dei di loro possibili motivi di buonumore (calcio, solitamente), solo dopo ripetute non risposte agli invii di impomatati curriculum, ma comunque non lo ammetterebbero mai. Scrivimi delle cronache mondane e firmati Irene Brin, le dice Longanesi. Lei esegue alla perfezione, sin da subito: “Brava! Farai carriera!”, le scrive Luigi Pirandello. “Io sono un’invenzione di Leo Longanesi”, specificherà poi lei molte volte, anche dopo la chiusura di Omnibus, nel 1939, che il Minculpop ordina con la scusa di non poter scusare la pubblicazione di un articolo in cui Alberto Savinio, scrittore, scrive che Leopardi doveva esser morto di dissenteria, visto come s’ingozzava di gelati, sorbetti e cremolati. Che mai più s’infanghi l’onor di un patrio orgoglio e si chiuda perciò quell’immondo fogliaccio, tuona il regime. Che clima, eh? Che mondo. Irene Brin continua a scrivere per altri trent’anni (non la fermano né il fascismo, né la guerra, ma uno stronzo tumore sì, nel 1969), adottando diversi altri pseudonimi e rilucendo sempre del brillio, del cin cin, insomma dell’accenno di brindisi che Longanesi le ha registrato nel cognome, ma che non ha avuto il merito d’inventare, come lei ha creduto sempre, chi lo sa se per insicurezza o per gratitudine o perché tutti esistiamo nel racconto che gli altri fanno di noi e nel modo in cui taluni scelgono di chiamarci, per assonanza con quello cui ci credono destinati. Maria Vittoria Rossi era nata per essere Irene Brin e Longanesi ha avuto il merito di capirlo e trovare il nome giusto affinché quel destino si compisse. Anche il destino ha bisogno di formule, di rime che si bacino e, baciandosi, facciano da pietre focaie.
Fu un'intuizione di Longanesi, che le diede il più noto di una lunga serie di pseudonimi. Il suo nome vero era Maria Vittoria Rossi
Scrisse di mondanità senza smettere di fare la realtà a fette, increspare la piega del benessere e impedire di farcisi inebetire
“Di ogni discorso conoscevamo, matematicamente, la conclusione, di ogni teoria lo sviluppo: e la colpa non era da attribuirsi solo al fatto che gli argomenti erano già sfruttati e passati di moda, ma piuttosto all’animo e al costume dei conversatori, che traducevano in forme vacue e pompose una malinconica povertà di invenzioni e di gioia. E così, dopo aver tutti insieme firmato l’albo degli ospiti, prendemmo, definitivamente, congedo dallo snobismo; e dalla nostra amica australiana”: è il dicembre del 1938 e Irene Brin, ventisettenne, chiude così una puntata del suo “Giallo e Rosso” (il colori di Roma) su Omnibus. Ha raccontato di Muriel, l’australiana che – insieme a una madre “eccessivamente grassa e, per la tenera voce di soprano, detta l’Elefante-che-ha-inghiottito-un-usignuolo” – le era capitata per vicina quando era una bimbetta e che, per un po’, l’aveva ammaliata con il suo accento esotico, il suo dire funny di tutto, soprattutto dell’ordinarietà e del caos, convincendola per un po’ a vergognarsi della sua casa ordinata, con le stanze pulite, gli orari non flessibili, le bottiglie piene, il vino da versare solo per occasioni che non arrivavano mai. Poi, però, che noia, quanto squallore, quale angustia. C’è, in questo e in tutti gli altri lavori di Irene Brin che Flavia Piccinni ha raccolto ne “Il mondo” (Atlantide edizioni), in libreria dal 10 ottobre, la ragione per cui Montanelli si sbagliava e Irene Brin non ha mai potuto, dopo averlo voluto, essere snob, talvolta sembrandolo e che è ciò che le ha dato il fiato per dire, pochi istanti prima di morire, “voglio fare un viaggio”: la capacità di comprendere tutti attraverso l’incapacità di essere come tutti. Immergersi senza bagnarsi è stato il suo miracolo, la ragione per cui Sciascia disse che i suoi articoli erano “cose viste” intendendo dire che senza di lei non ci avremmo fatto caso e le avremmo perdute e per la quale una raccolta che, oggi, ce la mostra e ce la dona, non può che chiamarsi “Il mondo”, avendone dentro il ritratto, la rincorsa, la scrittura, la riscrittura, i dettagli, tutti: incredibile quanti ce ne siano, anche il modo in cui mangiamo il pane è una galassia di rivelazioni sul nostro conto e allora, accidenti, si capisce che Irene Brin è una difficile, una che se tagliamo il pane a tavola, anziché in cucina, con l’apposito coltello (“a tavola il pane si spezza con le dita”), intuisce quanto poco rispetto abbiamo per il lavoro, quanto siamo svogliati, quanto è inappetente il nostro senso del sacro. Nel galateo che Irene Brin dispensava dietro lo pseudonimo di Contessa Clara Radjanny von Skéwitch, sul rotocalco La Settimana Incom Illustrata – e che le valse la parodia di Franca Valeri in “Piccola Posta - ovvero cercasi vecchia con dote”, regia di Steno, 1955 – si prescrive che si rispetta il pane, sempre; tutti hanno diritto al silenzio, nessuno al frastuono; se avete un cagnolino, badate sempre a non rispettarlo più degli esseri umani in vostra prossimità; se siete ospiti, non potete permettervi di stare a dieta, digiunerete nei tre giorni successivi; siate formali “e sarete invincibili, poiché avrete applicato, forse grettamente, forse duramente, le regole del vivere civile”; mai elogiare qualcuno dandogli del “molto umano” perché significa ammettere che siamo, generalmente, bestie. “Pensate, pensate a non far gesti assurdi, a non pestar piedi, a non grattarvi la testa, a non contraddire chi vi accompagna, a non richiedere l’attenzione generale: nessuno ci ama per istinto, facciamoci amare per riconoscenza”. Lo state pensando tutti, vero, che se fossimo educati anche solo a un paio di queste frivolezze, non avremmo voglia di dichiarare l’indipendenza del nostro appartamento dal resto del palazzo in cui viviamo coltivando il disprezzo per il vicinato. Legittimo. Ma sotto le frizzanti prescrizioni del buon vivere, l’invito di Irene Brin è a non superare il proprio perimetro e, possibilmente, a restringerlo: accorgersi che non siamo indispensabili, che dobbiamo cedere il passo agli altri, che noi veniamo dopo, che la buona educazione è l’eserciziario della pietà e che la pietà “ha tanti aspetti, ma una sola causa: la comprensione tenera e paziente del nostro prossimo, delle sue pene e delle sue paure”.
Accusata di essere snob, in realtà aveva la capacità di comprendere tutti attraverso l'incapacità di essere come tutti
Sono gli anni Cinquanta. Gli italiani hanno ancora la Seconda Guerra mondiale negli occhi e Irene Brin scrive a liberi cittadini, non ai sopravvissuti del più grave conflitto della storia. “Se vi piace un tocco singolare, nessuno vi vieta di imbrillantinarvi le caviglie”: sono gli anni Cinquanta, le donne si sono tolte di dosso, praticamente il giorno prima, i calzettoni verdi dei soldati americani, gli unici reperibili, che le facevano sembrare dei ramarri, appese sulle camionette che le portavano da una parte all’altra, attraverso la Roma sfatta ma vitalissima de “L’orologio” di Carlo Levi. I tram sono pieni di dattilografe e operai, le scuole di ballo stanno al pianterreno di grosse ville moresco-liberty ormai disabitate, le bambine fanno lezione mentre dalla cucina arriva l’odore e “la tiepida sazietà dei legumi già sfatti”, insomma la vita torna a brulicare e Irene Brin dota tutti e tutte di ali di farfalla. E’ di fiducia che gli italiani hanno bisogno e allora, scrive lei, non portate con voi l’ombrello «se prevedete di uscire con un uomo meticoloso (e quindi munito di ombrello personale) o con un uomo ricco (e quindi munito di automobile)”. Fiducia e moderazione, signore: “Con le pellicce, fate quel che potete, ma ricordatevi che è meglio cominciare con una sola bestiolina la propria futura opulenza che non buttarsi nelle avventure dei pagamenti a rate”.
Qualche anno fa, Rai Storia ha mandato in onda una puntata dedicata a Maria Vittoria Rossi, la giornalista dei venti e più pseudonimi e ha insistito molto sul diritto alla frivolezza che lei ha procacciato per sé stessa e per i suoi lettori. Se l’è arrogato e l’ha spartito con chi ha capito che non era sua intenzione rimuovere il passato, ma trasformarlo in futuro. L’ha impartito come un dovere verso la vita e ha, però, sempre ammonito dallo sbrago conseguente (“il campeggio è immorale!”, scusate l’esempio, non s’offendano i campeggiatori). Si dice che Irene Brin scrivesse sdraiata, nel suo ufficio perché sdraiata aveva imparato a scrivere negli anni Quaranta, quando scriveva dalla guerra, dai Balcani (“Olga a Belgrado» è il libro di quel momento della sua vita) e scrivanie non ce n’erano, né sedie, né poltrone, ma materassi sì, materassi e basta.
Facciamo un passo indietro. Nel ’43, quando rientrano a Roma, Irene e Gaspero sono poveri, come tutti, in casa nascondono un bel po’ di soldati e le traduzioni (un romanzo a settimana per l’editore De Fonseca), gli articoli, la dattilografia, non sono sufficienti: lei prima vende i regali di nozze (tra cui un disegno di Picasso) e poi se ne va a fare la commessa in un negozio di via Bissolati, a Roma, la strada che sfocia in Via Veneto. Un giorno, un ragazzo le porta dei disegni: arriva da Portonaccio, ha talento, li vende subito. Così, le viene in mente di aprire una galleria: inaugura L’Obelisco insieme al suo Gaspero. Il primo artista che scelgono di esporre è Giorgio Morandi. L’arte le dà il denaro e il denaro le dà il mondo. Nel 1950, mentre passeggia a Park Avenue – è già la contessa Clara della settimana Incom – una signora l’avvicina per domandarle dove abbia comprato i vestiti che indossa: è Diana Vreeland, caporedattrice di Harper’s Bazaar, che la nomina poco dopo corrispondente per l’Italia della rivista. Ed è su quelle pagine che Irene Brin diventa ciò per cui tutti la conoscono e che, in fondo, ha oscurato il resto e ha consentito a Montanelli di essere così leggero con lei: l’ambasciatrice del made in Italy nel mondo, la penna che ha restituito alla sartoria italiana l’orgoglio del proprio specifico e l’ha resa capace di servirsene per emanciparsi dal tiro di quella francese. Il punto è che Irene Brin, anche scrivendo di passerelle e mondanità internazionale, non ha smesso di fare la realtà a fettine, di salare i giudizi, increspare la piega del benessere e impedire di farcisi inebetire, vincolare i piedi alla terra (sempre dentro un paio di scarpe adatte), ritenere prospero e sensato il progredire sulla misura dei propri mezzi, tirare le orecchie ai somari. Ha inventato il giornalismo di costume, c’insegnano. Ed è vero. Se abbia o non abbia eredi non importa: in fondo, nessuno li ha davvero. Se sia incompatibile con il nostro tempo, invece, è importante ed è vero ed è quello che la rende così necessaria e se non ci credete leggete qua: “Emancipate. Parliamone, poverine. Parliamo delle spavalde, delle superbe, delle sventate. Di quelle che vogliono vivere la loro vita. Sorpassare i luoghi comuni. Liberarsi dai pregiudizi. Accontentare il fidanzato. Anche se portano abiti del 1954, le emancipate conservano spesso un trepido cuore targato 1901”.
Che strega, vero? Già. Però diceva sempre di applaudire: “a teatro, alla conferenza, al concerto, dovunque cioè non disapproviate la fatica che qualcuno si sta dando per voi. Applaudite sempre: vi comporterete, a seconda dei casi, con riconoscenza o con carità”. Strega sì, ma stronza mai, nemmeno quando i lettori le davano dell’ignorante perché non le era piaciuto un film di Charlot: “Gli amabili conformisti non ammettevano che io potessi, contemporaneamente, leggere, conoscere, dissentire”. Cosa vi ricorda?
Universalismo individualistico