Emmanuel Mounier

Mani Bucate

Per noi weimeriani l'ottimismo è quello tragico di Emmanuel Mounier

Guido Vitiello

Formule da riscoprire davanti al protosquadrismo odierno

Che ci faceva la mia tetra incappucciata figura di frate weimariano, tormentato dalla visione degli ultimi giorni della Repubblica, nelle sale fiorentine in cui si celebravano le Giornate dell’ottimismo? Si direbbe che mi aggiravo come un intruso, o forse come un guastafeste – e del resto, per chi rischia di farsi possedere dallo spirito del Savonarola e dalla sua predicazione apocalittica, non c’è luogo più pericoloso del Salone dei Cinquecento. Gli amici foglianti parevano sentirsi in salvo sotto il massiccio soffitto a cassettoni, eppure io avvertivo l’impercettibile scricchiolio delle capriate e già allucinavo un cumulo di rovine, per quella speciale varietà di traveggole che accomuna veri e falsi profeti e che potremmo chiamare la cataratta del millenarista. Avrei dovuto lasciare i miei amici in pace, ma poi ho pensato che tocca anche a noi weimariani la nostra parte di ottimismo, ed è l’ottimismo tragico.

 

La formula è di Emmanuel Mounier, l’animatore di quel movimento personalista, raccolto intorno alla rivista Esprit negli anni terribili tra le due guerre, a cui dobbiamo le riflessioni più limpide sull’“engagement”, sull’impegno militante, prima che Sartre allungasse le mani sulla parola e ne facesse un gagliardetto ad uso dei fanatici. L’ottimismo tragico di Mounier cercava un punto di equilibrio paradossale – che mai sarebbe potuto diventare un comodo appoggio, una “posizione” filosofica – tra l’affaccendato buon umore del sacrestano e la disperazione inerte del profeta di sventure, tra “l’ottimismo impaziente” dei liberali e dei rivoluzionari e “il pessimismo impaziente” dei fascisti. Potrà stupire che a rivendicare quella formula sia stato Umberto Eco, che nelle cose della politica era piuttosto il tipo del sacrestano, dell’umorista senza sentimento tragico di alcunché, e dunque in fin dei conti anche senza vero umorismo. Meno strano, invece, che l’ottimismo tragico di Mounier fosse caro a un millenarista liberale come Marco Pannella, che su quelle voci del cattolicesimo francese si era formato fin dagli anni Cinquanta.

 

L’ottimismo tragico è altra cosa dal conflitto gramsciano tra la volontà e la ragione, somiglia piuttosto a una variante moderna del motto paolino spes contra spem, ed è una delle nozioni – poche, ma meditate, ruminate, ripetute senza tregua e quasi incorporate al respiro, come la preghiera incessante del pellegrino russo – che Pannella portò con sé per una vita nell’equipaggiamento eteroclito della sua bisaccia di combattente. La stagione in cui lo sentii invocare più spesso Mounier fu quella inaugurata dal 1992, quando il “parlamento degli inquisiti” – di gran lunga più nobile di tutti i parlamenti che sono venuti dopo – viveva sotto l’assedio permanente di un protosquadrismo che oggi, assuefatti come siamo alla canea grillina, ci pare piccola cosa. Non credo l’abbia mai detto con queste parole, ma Pannella era convinto che quando intorno tutto minaccia di crollare, quando insomma anche i sacrestani sono costretti a inforcare le lenti del millenarista, è allora che un ceto dirigente può dare il meglio di sé (un’altra voce, più curiale, esortava in quei giorni il parlamento all’“ottimismo tragico”, ed era la voce di Gianni Baget Bozzo).

 

Ma per un sussulto di dignità si dovrebbe riscoprire quella che Mounier chiamava la “grande paura”, la paura del finimondo. Dalla “piccola paura” non possono nascere che mosse meschine, soluzioni abborracciate, calcoli che danno l’illusione della prudenza; dalla “petite peur” nasce la goffa rincorsa alle pretese impazienti degli antiparlamentaristi. Detto altrimenti, il problema dei nostri ceti dirigenti non è l’aver paura, è il non averne abbastanza. Solo quando tremeranno davvero, noi frati weimariani andremo a predicargli il nostro ottimismo – l’ottimismo tragico.

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