Un fotogramma di “Magnatutto”, film d’animazione di Ugo Nespolo, 2017

La solitudine dell'artista

Ugo Nespolo

Come un pittore finisce per rispecchiarsi nel “barocco involontario” della propria immaginazione

Artista ecclettico, Ugo Nespolo ha spaziato senza ritegno fin dai tardi anni Sessanta tra Arte povera e Pop. E’ stato protagonista del Cinema Sperimentale internazionale. Ha frequentato Fluxus e la Patafisica. Ha esposto con intensità in gallerie e musei in Italia e nel mondo. Con questo articolo inizia la sua collaborazione con il Foglio.

 


 

Evaporati i fumi della grande bouffe, la favolosa èra dell’everything goes, quelle stagioni immerse nel qualunquistico brodo dell’andante postmoderno, l’artista – anima bella – si specchia nudo e orfano al freddo e al gelo di uno scabro universo creativo svuotato di teorie per vivacchiare all’ombra di poeticucce stente e ininfluenti.

 

Al più si avvia spaesato sull’altra strada della rincorsa al vecchio “nuovo” e magicamente si ritrova immerso nel regno del barocco involontario, quello che subito ravviva la memoria del Cavalier Marino paladino della caccia alla meraviglia e “…chi non sappia stupir vada alla striglia”, precisando ancora “… parlo dell’eccellente e non del goffo…”. Goffaggini appunto spesso ammantate di spuntate provocazioni o di concettualismi anemici.

 

Il mondo dell’arte svuotato di teorie e di poetiche, quelle fatte di operatività pratica e convinzioni spesso utopiche sul modello delle storiche avanguardie ha generato anche la scomparsa di movimenti, dei gruppi e persino di affinità e tendenze per lasciare l’artista ed aggirarsi solo alla caccia di indicazioni, di pensieri – guida che non siano solo quelli del diabolico mercato. Cerca indicazioni che sappian tendergli la mano per guidarlo in una qualche direzione provvista di senso.

 

Finita da tempo l'epoca delle Avanguardie, si vive l'èra delle superchiacchiere, satura di una iper-produzione di oggetti

Con la scomparsa delle teorie si è verificato però anche l’occultamento dei teorici, coloro cioè che in qualche modo potevano essere in grado di cristallizzare idee e ipotesi magari pescate nel pozzo profondo dell’estetica per poter costruire programmi, indicare utopie, direzioni, stilare manifesti.

 

Solo intorno alle teorie solidificano infatti progetti e decisioni e ci si può allontanare dalla grigia wasteland in cui ci si muove ora.

 

Fin dal 1980 Philippe Sollers scriveva: “La Teoria ritornerà, come tutte le cose, se ne riscopriranno i problemi il giorno in cui l’ignoranza sarà giunta al punto che non nascerà altro che noia”.

 

Viene in mente che qualcuno aveva ricordato come le teorie – prima che possan esser trasformate in un metodo dalle istituzioni o dal mercato – nascono per definizione come atto di opposizione, un desiderio di tabula rasa, una forza ricca di energia creativa.

 

Renato Poggioli nel suo fondamentale “Teoria dell’arte d’avanguardia” ricorda come e quanto “…un tempo si teorizzasse in modo elevato… per sapere se l’arte assolve la sua vera missione”.

 

Finita da tempo immemore l’epoca delle Avanguardie – persino il termine oggi si pronuncia con un poco di pudore – si vive l’èra delle superchiacchiere, epoca satura di una sfrenata iper-produzione di oggetti la cui quantità risulta inversamente proporzionale alla produzione di cultura. Marcel Duchamp, nelle sue Afternoon Interviews con Calvin Tomkins, affermava nel 1964 a proposito della quantità: “In my opinion such an abundant production it’s very detrimental”. Robert Hughes senza riverenza e timori dichiara: “Ciò che trovo specialmente tedioso è il business che ti trasporta da un museo all’altro con l’aspettativa di trovare nuovi stimoli mentre in realtà trovi la stessa roba dappertutto. La quantità ha portato monotonia e mediocrità”.

 

Si vive allora l’epoca che Jean Baudrillard considerava il grado Xerox dell’arte, il suo vanishing point, la sua totale simulazione, quell’arte che “sembra non avere più poste in gioco”.

 


Un fotogramma di “Magnatutto”, film d’animazione di Ugo Nespolo, 2017


 

Forse davvero l’ultima avanguardia del Novecento ancora ricca d’istanze teoriche, di progetti utopici, vera estetica della sovversione è stata l’International Situazioniste, quell’I.S. dal forte legame col Surrealismo alla fine degli anni Cinquanta ormai estinto. Il pensiero di Guy Débord intriso di cultura anarchica sarà addirittura nutrimento alle rivolte del Maggio francese e porterà fiumi di consenso in coloro che egli chiamava con disprezzo pro-situ seguaci osannanti, parassiti di quel successo mutevole e non definitivo.

 

L'artista oggi novello Sisifo incapace di uscire dalla schiavitù delle proprie limitazioni deve fare i conti con la dannazione del prezzo

Proprio quest’ultima avanguardia che aveva profetizzato la Sociètè du Spectacle – prima di esser stata sepolta alla svelta – lascia una forte testimonianza d’energia e di messaggio positivo alle coscienze degli intellettuali più colti e sensibili, la possibilità di una controcultura, il rovesciamento delle arti e della sua esasperata attitudine allo spettacolo ripetitivo, odio per il chiacchiericcio pseudo-critico interessato e fastidioso, ribrezzo per la schiavitù del mercato.

 

La corona di spine sul capo dell’artista produce anche una dolorosa ferita dovuta alla scomparsa del “mestiere” quel craft, skill manuale, che oggi sembra risultare imbarazzante persino da citare. Ready-Made innanzi tutto e Marcell Duchamp fonte inesauribile di plagio intellettuale, e poi come dice Maurizio Ferraris “dogma della indifferenza estetica” per la quale, si sa, “la bellezza non è più l’obiettivo primario di quelle che una volta si chiamavano belle arti per distinguerle dalle arti utili! La bellezza è… un fossile fuori luogo!”.

 

Bella esecuzione sostituita spesso da concettualità minime e astruse quanto peregrine, modesto celebralismo che tende a feticizzare l’opera.

 

Ancora Baudrillard: “Votata al feticismo decorativo e all’idea, l’arte non ha più autonomia”.

 

L’autonomia degli artisti – da pagare sempre a caro prezzo – potrebbe liberare dalle vessatorie e indiscutibili regole non scritte di cui è fatto il sistema delle arti. Intanto avrebbe il dono prezioso di portare l’arte fuori dall’ambito del valore come puro investimento e del decorativismo diffuso.

 

Nascerebbe il coraggio di tenere posizioni scomode, marginali ma forti e influenti, posizioni persino contro.

 

Vien da pensare – ad esempio – a Theodore Géricault, a quella Zattera della Medusa, opera potente in grado di sollevare questioni forti, dubbi sociali, con la forza d’incrinare quasi la solidità della monarchia della Restaurazione. E poi Goya con i suoi tragici Disastri della Guerra”, i violenti collages antihitleriani di John Heartfield o le opere di denuncia di Ben Shahn e con qualche riserva il Guernica di Picasso.

 

Gli stessi futuristi decisi a ogni costo a rendere possibile e attivo il legame arte-vita rifiutavano teoricamente di produrre oggetti nuovi per un mondo vecchio. L’idea è allora quella utopistica di costruire un mondo nuovo.

  

L’artista oggi novello Sisifo incapace di uscire dalla schiavitù delle proprie limitazioni deve poi fare i conti con la dannazione del prezzo. L’Art World ci chiede con forza di apprezzare quello che altri s’industriano a prezzare spesso in maniera esorbitante. E se il denaro e il profitto sono gli ingredienti del valore delle opere d’arte han ragione d’essere le dichiarazioni di Thomas Hoving, ex direttore del Metropolitan Museum of Art di New York: “L’arte è sexy, l’arte è soldi-sexy, l’arte è soldi-sexy—arrampicata-sociale-fantastica”. Per chiarire meglio il concetto Brett Gorvy – vicepresidente della sezione Arte Contemporanea di Christie’s – rammenta: “E’ solo business, non storia dell’arte”.

 

Le teorie – prima che possan esser trasformate in un metodo dalle istituzioni o dal mercato – nascono per definizione come opposizione

Se è vero che si sta vivendo un grigio periodo di relativismo culturale, di autunno della cultura dove tutto può esser arte, allora ha ragione Charles Saatchi quando afferma sicuro: “Gli squali possono funzionare, la merda può funzionare, l’olio su tela può funzionare, ci sono squadre di sovrintendenti di museo pronti a prendersi cura di qualsiasi cosa un artista decida essere arte. Non ci sono regole per gli investimenti”.

 

Il mercato sia opaco quanto vuole ma è pur sempre, come ricorda Jeffrey Deitch del White Cube, “la vera arte”.

 

Per gli acquisti dimentica il tuo gusto se ne hai uno, studiati piuttosto la lista dei Top 100 dell’Art Review, i Power 100 e seppellisci il valore estetico che ti porti a casa sotto forma di bond e certificati sia pure cartacei.

 

Per essere più profondo in materia di rendimenti del mercato artistico converrà studiare la Congettura di Coase o le Oscillazioni Casuali di Baumol, approfondire il Modello Edonistico di Lancaster-Throsby o di Poensgen-Sokolow. Privilegiare i più cauti francesi Chanel e Varet o gli ancor più cauti Frey e Pommerehme! Occhio che i rendimenti oscillano tra il 17 e il 2,8 per cento.

 

Non male i metodi statistici dei Testimoni Privilegiati, del Dipinto Medio o della Doppia Vendita. Ci si può fidare di Art Price o di Artnet Analitic e della loro Regressione Edonica o sposare l’approccio di Art Tactic o quello di Art Market Confidence Survey.

 

Per gli acquisti diretti meglio affidarsi ad Art Advisors o Consultants delle Case d’Asta non senza prima però aver riletto con cura il mirabile testo di Robert Hugues apparso su Time Magazine il 6 marzo 2000 dal titolo “The Auction House Scandal”. Per maggior sicurezza conviene fare il raffronto con l’investimento immobiliare, quello borsistico e con gli altri Asset Class. Fidarsi poco del mercato online tipo VIP Art Fair o Art.sy (di Gagosian-Zhukova).

 

Per non trovarsi in salotto oggetti imbarazzanti, poco giustificabili o ingombranti tanto vale puntare su titoli quotati del comparto Art and Luxury Collectables o decisamente dirigersi verso i Fondi in Arte evitando società opache come quelle dell’est europa o cinesi o coreane.

 

A sentir poi che nelle aste dei paesi facoltosi ben undici opere d’arte contemporanea son passate a prezzi che raggiungono persino i duecento milioni di euro cadauna si genera un senso diffuso di stupore e di spossatezza tra il collezionista avveduto – in primis – che ben sa che non può facilmente essere affar suo mentre l’artista adocchia da molto lontano il teatrino dei roboanti maneggi finanziari allestiti con gusto e abilità per gli amanti del “ciò che più costa più vale”!

 

Ecco che sorge la resa apatica proprio come quando per il malfunzionamento di una qualche ghiandola endocrina si registra un netto calo della libido. Si soffre un doloroso stato di inadeguatezza, la scomparsa dell’eroismo che vince la depressione e che cede il posto a quella demotivazione che abbatte l’eroico volontarismo creativo.

 

L’artista ben sa di non poter più vivere le divine manie, l’eroico Cantami o Diva, sa di non potersi annullare in quello stato maniacale amoroso e mistico, specie di demone che esalta al massimo l’animo e le convinzioni. Non conosce più quella forza che rende ispirati e potenti, quella stessa che già Platone nel “Fedro” considera una forma di invasamento maniacale in grado di accendere uno stato extra-ordinario dell’anima umana resa capace di eccezionali potenzialità artistiche.

 

Dal momento che l’arte si sa è una della Commodities quali soia, cacao, nickel, gas naturale, maiali ecc… attenti a distinguere come uno spaghetti western di Sergio Leone tra Fondi buoni, brutti o cattivi.

 

L’artista spinto dal bisogno di uscire dalla comoda farsa del cretino-di-genio è affamato di consapevolezza. Disperato nel suo ruolo di artista-Ikea, identico ovunque, buono per tutti e nessuno, vive la sua marginalità fatta per lo più di gesti pavidi e di ripetizioni indifferenti.

 

In un universo – come ricorda Baudrillard – in cui il politico, il sessuale e l’estetico perdono la loro specificità e si generalizzano: “Quando tutto è politico, niente è più politico, il termine non ha più senso, quando tutto è sessuale, niente lo è più, la sessualità perde ogni determinazione; quando tutto è estetico, niente è più né bello né brutto e l’arte stessa sparisce”.

 

Sparizione dolorosa. L’artista si abbandona alla solitudine e, come scrive Goethe: “Ach! deristbaldallein”, “Ahimè! è presto solo”. Davvero.

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