Lo scrittore Vargas Lllosa (foto LaPresse)

Leggere Vargas Llosa e scoprire che letteratura e politica c'entrano con la verità

Marco Archetti

È uscito in Spagna “Conversazione a Princeton”. Dialogo fra lo scrittore e un ristretto gruppo di studenti che ha analizzato il suo “tesoro” fatto di corrispondenze, revisioni di romanzi e decine di articoli giovanili ed eterogenei

Anni fa circolò un reportage che non presi sul serio, ma che mi sgomentò. Sosteneva che, in caso di distruzione atomica, le uniche testimonianze della nostra civiltà in grado di sopravvivere sarebbero stati i sanitari. Immaginandomi il grottesco paesaggio – l’estesa brullaggine, l’orizzonte incenerito e, in tanto sfacelo, alcuni sopravviventi monumenti di ceramica – mi precipitai a scorrere i titoli del mio Kindle. Davanti a quei byte improvvisamente sumeri venni travolto da un senso di umiliata provvisorietà: lo spirito umano aveva lavorato invano per secoli, se tutte quelle creazioni dell’ingegno avrebbero potuto essere spazzate via d’un colpo? Poi, la settimana scorsa, nel corso della presentazione del nuovo libro “Conversazione a Princeton”, una dichiarazione di Mario Vargas Llosa mi ha risollevato l’umore. “Quando mi candidai alla campagna presidenziale peruviana, pensai che mi avrebbero potuto bruciare la casa,” raccontava lo scrittore (e c’è ancora chi si chiede come mai sia fissato con la democrazia liberale). “Che ne sarebbe stato, in quel caso, di tutta la montagna di lettere, appunti, bozze? Ora quei documenti sono al sicuro, l’università americana li ha ospitati e l’archivio è stato concepito per resistere a ogni catastrofe. Dovesse anche finire il mondo, resterà!”.

 

Trecentosessantadue casse: questa è l’entità del tesoro perenne (“Vale un Perù!” si diceva una volta) che annovera corrispondenze, revisioni di romanzi e decine di articoli giovanili ed eterogenei. Invitato a parlarne, per un semestre di “radiosa presenza” – a definirla tale è Rubén Gallo, direttore del dipartimento studi latinoamericani e coautore del libro, uscito da poco in Spagna per Alfaguara – Vargas Llosa ha offerto il suo corpus (e tutti gli inserti speciali dell’archivio) all’analisi di un ristretto gruppo di studenti, che ne ha analizzato scene, retroscene e traiettorie. Tema: il rapporto tra letteratura e politica. Il dialogo, di cui il libro è fedele trascrizione, passa per tutte le stazioni principali. Si parla di Sartre, troppo intelligente per essere un buon narratore (“I suoi non erano romanzi, ma argomentazioni romanzate”) e si rievoca l’amicizia con Cortàzar, introverso jazzofilo del tutto disinteressato alla politica, che scoprì solo a sessant’anni, quando la maggior parte della gente scopre il disincanto. Si raccontano le sensazioni del primo viaggio a Londra, nel 1966, “quando il giornalismo del Times era di una serietà quasi funebre, chi l’avrebbe mai detto che sarebbe andato incontro alla banalizzazione?”, e si ride amaro al cospetto dei drammi grotteschi generati dalla censura (spagnola, nella fattispecie) che fu capace di trovare in uno studio saggistico su King Kong un insulto al Generalissimo. “Qual è la relazione tra violenza politica e arte?”, chiede uno studente. “Un commando di nazisti entrò in casa del pittore Grosz per arrestarlo,” risponde Vargas Llosa, “lui si finse il maggiordomo, offrì loro il tè, e mentre quelli bevevano saltò da una finestra e scappò negli Usa. Si salvò la vita, ma la sua pittura si svuotò”. Molti anche gli aneddoti sull’origine dei romanzi. “L’idea per ‘Conversazione nella Catedral’, col suo linguaggio invisibile, mi venne in un baretto de malamuerte, dopo una visita a un canile. La casa verde, invece, fu concepita sotto l’influenza di Faulkner, il linguaggio è un personaggio ingombrante”.

 

Così, pagina dopo pagina, l’indagine sul rapporto tra politica e letteratura – tra realtà e rappresentazione – si dilata in un processo virtuoso, e gli studenti concorrono a incrementare la lucidità dello scrittore, invitandolo a rievocare le proprie ragioni alla luce del risultato romanzesco. Ed ecco che “Conversazione a Princeton” si trasforma, ponendo al lettore una domanda più vasta: una domanda sulla ricerca della verità. La verità di un testo, certo, ma il mondo non è un tessuto verbale perpetuo?

La pepita è nell’ultimo capitolo, quando Vargas Llosa conversa con Philippe Lançon, uno dei sopravvissuti alla strage di Charlie Hebdo. Il ricordo è da brividi, ma il racconto è luminoso. Un canto per la libertà, purissimo. “L’irriverenza,” affermano i due, “è una delle più grandi conquiste della civiltà”.

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