Gli Hearst, una guida di famiglia capitelli, fake news e altre follie. Il re dei giornali
Per capire l'uomo che tra gli anni Venti e Trenta ha rivoluzionato i magazine e reinventato il giornalismo, William Randolph Hearst, bisogna andare a vedere il suo delirante castello sulle scogliere della California
Ci dev’essere uno speciale paradiso per i costruttori dei grandi abusi immaginifici dell’architettura, le case larger than life che definiscono e spesso travolgono i loro proprietari e mandanti: re Ludwig di Baviera coi suoi castelli, Curzio Malaparte sullo scoglio caprese; i Volpi a Sabaudia; e poi naturalmente William Randolph Hearst col suo delirante castello sulle scogliere californiane.
Il pezzo forte del ristorante e dello shop sull'oceano è la carne, che qui nel ranch viene prodotta dagli eredi Hearst
A metà strada tra San Francisco e Los Angeles; lontanissimo da entrambe. Arrivi nel parcheggio gigante sull’oceano ed entri in un mall con enorme parcheggio, tipo aeroporto di Orio al Serio ma meno bello, con il bar il ristorante tanti negozietti di souvenir e un piccolo museo dedicato agli Hearst e naturalmente alla mamma del Fondatore, quella che lo portò in giro in Europa nel più classico dei Grand Tour incubandogli il virus del capitello, morbo rarissimo che alligna nei magnati americani ma quando ti prende è finita. Il pezzo forte del ristorante e dello shop è la carne che qui nel ranch viene prodotta, dagli eredi Hearst. C’è il filetto, il controfiletto, il sirloin, anche nelle pratiche confezioni sottovuoto (il ranch Hearst fornisce le bistecche anche a Whole Foods, l’Esselunga americana). La famiglia anni fa ha rifilato il castello all’Ente parchi americano, tenendosi una specie di usufrutto, e soprattutto 82 ettari di tenuta vista-mare che produce mucche allevate a terra e con vista oceano. Come sempre in questi casi hanno provato varie volte a rifilare il mammozzone allo Stato (la prima volta all’università di Berkeley, che ha rifiutato, la seconda all’Ente parchi americano, infatti le guide son tutte in tenuta da boy scout, questa cosa americana che fa sempre simpatia).
Lì subito paghi, ti mettono una fascetta al braccio per ogni tour prenotato – sono carissimi, tutto segmentato e scalabile, c’è quello delle cucine e quello dei cottage, e per vederlo tutto noi che siamo un po’ feticisti ne facciamo tre. Sottovalutiamo anche il fatto che su non c’è cibo ma ci saranno bar (pensavamo); ti fanno lasciare tutto e portare solo acqua, non sia mai che si rovinino queste antichità così antiche.
Hearst soleva venire qui in tenda, perché gli piaceva il contatto con la natura, e però poi disse che voleva qualcosa di più comodo
Quando è l’ora del check-in saliamo su questi bus naturalmente ibridi con le loro cromature e dentro parte subito il nastro con una musica da western, entrano i violini e parte la voce di Alex Trabek, quello di Jeopardy, che dice “Salve, sono Alex Trabek”, e comincia a raccontarti la storia del castello, e mentre si sale su è come su un aereo Ryanair – c’è dell’infotainment e del product placement spinto – e racconta subito che Hearst soleva venire qui in tenda, perché gli piaceva il contatto con la natura, e però poi disse che voleva qualcosa di più comodo, e si rivolse all’architetta Julia Morgan, che lavorava già per la famiglia, avendo edificato già vari manufatti a Berkeley (dove c’è una piscina Hearst e un circolo del tennis Hearst in una Hearst Avenue, e c’è la maledizione che se non si passa sotto il ritratto della vecchia Hearst tipo mamma del duca conte Catellami non si prenderà la laurea). Morgan è stata la prima architetta donna a essere ammessa all’albo di California e per gli Hearst aveva disegnato gli uffici del Los Angeles Examiner, e poi il grattacielo Hearst di San Francisco, poi fu scelta per questa Arcore californiana.
Mentre si sale ancora, la voce dice “vedete questi cervi” – Hearst istituì lo zoo privato più grande del mondo, dromedari, zebre, antilopi, leoni, orsi neri e grigi; e leopardi. Gli animali son poi stati donati allo zoo di San Diego dove tuttora vivono i loro discendenti, ma qui sopravvivono alcune zebre e appunto i cervi “da cui facciamo le squisite bistecche che potete trovare nel nostro shop”, dice il nastro. (“E ricordatevi di gettare i chewing gum negli appositi cestini!”).
Gli Hearst venivano giù col battello a vapore da San Francisco, col moletto privato che ancora oggi resiste, una fettuccia di legno nero nero che va avanti nell’oceano brumoso, bianco.
Istituì lo zoo privato più grande del mondo, con dromedari, zebre, antilopi, leoni, orsi neri e grigi. Oggi sopravvivono cervi e zebre
Arrivati su, si viene scaricati ai piedi di questa collinetta, e salendo subito si arriva alla famosa piscina, la piscina in cui fu girato Spartacus. La piscina del Nettuno, con colonnato intorno tipo piazza Plebiscito a Napoli, ma sguardo sul Pacifico, e pronao tipo Partenone e puttini che cavalcano cigni di marmo nuovissimo, e deliziose spiegazioni d’epoca (“Neptune is a greek god!” – oohh di stupore – e poi: “Per girare Spartacus con Kirk Douglas, pensate, furono necessarie tre settimane di riprese per poi produrre un solo minuto di scene” – altri ooohh di disapprovazione del folto pubblico che si sventola per il caldo). Così la proprietà ha deciso di non prestarla più, se non a Lady Gaga per un video recente (molto vituperato perché in piena siccità californiana hanno sprecato milioni di galloni; la cantante ha fatto una donazione di 250 mila dollari all’ente parchi, lo scandalo è rientrato).
Ma intanto, come nelle case al lago dei milanesi, questa piscina continua ad avere un problema di infiltrazioni, e, spiegano cartelli e guide, di membrane, di calcare, e ogni giorno si perdono migliaia di gallons d’acqua (“ha sempre dato molti problemi tecnici, adesso siete fortunati, che solo per questa settimana ha riaperto ma poi chiude di nuovo perché devono rifare le strisce sul pavimento”). Il pubblico pagante fa subito le domande: esattamente quanto è stata pagata la piscina? Quanto è profonda? Quanti galloni? Dietro il pronao colline all’infinito, e l’Oceano.
Si sale ancora una scaletta ed ecco questo spiazzo con tanti lampioncini come l’opera di fronte al Los Angeles Museum, o in un outlet un po’ sfizioso; sembra Palm Beach, con fontana etrusca con sopra colonna messicana, molta bougainvillea e colonnine tortili.
Il mito della piscina. Il pubblico pagante domanda: quanto è stata pagata? Quanto è profonda? Quanti galloni?
Panchine tipo boulevard, e di fronte questo bastione senza senso, che sembra la cattedrale di Siviglia, con tetto di legno tipo Gstaad o pagoda, e balconcini in ferro battuto. Due campanili di puro barocchetto losangelino, uno stemma papale inventato su una facciata da caserma dei pompieri. E’ la creatura di Hearst, e non si capisce in quale delirio abbia deciso l’edificazione e la cementificazione in questo alto luogo dove crebbe ragazzino, ma appunto in tenda.
Dentro, tutta una confusione stato-chiesa; arazzi di Gobelin ciclopici fino al soffitto, tutt’intorno un coro ligneo smontato da chissà quale chiesa cupa, con scranni lucidissimi di legno scuro; e in fondo, invece dell’altare, un caminone da ritratto di Goya. Francese, del Seicento, smurato però da una penthouse newyorchese.
Hearst era istigato dalla mamma, Phoebe, che lo porta in questo Grand Tour da piccino in Europa, lo vizia molto, questo bambinaccio molto grosso e rissoso che vuol fare il giornalista, si vede nelle foto. Fanno shopping, smontano castelli, imperversano tra abbazie e ville medicee. Un po’ come l’altro maniaco del capitello, JP Getty, che non lontano da qui ricostruisce una villa romana piena di ammennicoli addirittura dalla villa dei Papiri (ma con moderno garage di cemento armato).
Naturalmente Hearst Castle è la Xanadu di Quarto Potere, anche se qui su Orson Welles non salì mai (mentre il mistero-Rosebud, cioè l’ultima parola che nel film il tycoon pronuncia prima di morire, dando la stura ai flashback, pare non essere la slitta, bensì l’organo genitale della Davies, come appunto il magnate la appellava. Fu una cattiveria sopraffina di Orson Welles, lo rivelò Gore Vidal, maestro di perfidie).
La mamma, Phoebe, lo porta
da piccino in questo Grand Tour
in Europa, lo vizia. Lui
è un bambinaccio grosso e rissoso
I terreni li aveva comprati il padre, il vecchio George Hearst, che aveva fatto fortuna con la corsa all’Oro e poi aveva vinto ai dadi il San Francisco Examiner. Il figlio aveva inoculato il virus dei giornali e trasforma l’Examiner in una specie di Chi, però fa collaborare Mark Twain e Jack London, prende l’aquila americana come logo (che c’è ancora) e il claim “America First” (ricorda qualcosa?). Fa il botto. Diventa “the chief” e “the monarch of the dailies”, il re dei quotidiani. Inventore di fake news, anche. “Voi scrivete l’articolo, a procurare la guerra ci penso io”, dice il suo doppio Orson Welles in Quarto Potere riguardo alla guerra ispanoamericana. Aveva introdotto le vignette a colori, la syndication, cioè la vendita degli stessi pezzi a vari giornali nel mondo. Aveva Cosmopolitan, e studi cinematografici (anche per far lavorare Marion Davies, attricetta che gli sarà vicemoglie, e incistata qui al Castello, fino all’ultimo. La moglie ufficiale resta a New York e sverna agli Hamptons. Hearst si ricostruisce una vita qui sulla West Coast).
Tra gli anni Venti e Trenta, la Gilded Age, ha 28 quotidiani da costa a costa. Con gli anni Trenta va in crisi, ma ancora oggi gli Hearst posseggono 300 magazine globali, da Cosmopolitan a Elle a Esquire, Harper’s Bazaar, Marie Claire, e il Gioia e il Gente italiani, e il Chronicle, il principale quotidiano di San Francisco. Oltre a 30 canali televisivi, tra cui Espn, e l’agenzia di rating Fitch. Morto nel 1951, Hearst lascia un testamento impeccabile che spiega perché il gruppo sia ancor oggi in ottime condizioni: gli eredi non potranno mai controllare più di cinque dei tredici posti in consiglio di amministrazione (in pratica, non comanderanno mai). Muore però a Beverly Hills, perché negli ultimi tempi qui far venir giù i medici in aereo è troppo complicato.
Con gli anni Trenta va in crisi,
ma ancora oggi gli Hearst posseggono trecento magazine globali, da Cosmopolitan a Esquire
Nel castello-chiesa si passa in un piccolo pertugio ed ecco una sala-refettorio sotto bandiere del palio di Siena, con l’orso, l’istrice e tutte le contrade; le pareti altissime e le finestrelle su su in alto impediscono anche solo l’idea di essere al mare; mentre i coperti hanno ancora i tovagliolini (di carta) con la H di Hearst e la “sua marca di ketchup preferito, Heinz” dice la guida, non proprio una nicchia). Sempre al piano terra, una sala biliardo, con biliardo americano e biliardo francese; in questa bolla liberal montanara spiega sempre la guida che le signore potevano giocare al poker insieme ai signori, una sfacciataggine per l’epoca; e ci sono telefoni dappertutto, per immettere ordini di Borsa a Wall Street, gestire l’impero.
Man mano che invecchia Hearst prende tante delusioni come tutti. Ha tentato la carriera politica; il suo rivale è Roosevelt: Hearst invece si candida a congressman per lo stato di New York (e vince), e poi a presidente (perde) a governatore (perde) a sindaco di New York (perde). Le guerre gli hanno portato fortuna, quella ispano-americana del 1898 che praticamente inventa lui, col famoso telegramma agli inviati. La Seconda guerra mondiale rilancerà il suo impero dalla crisi.
Si sposta sempre più a ovest, abbandona New York e viene a vivere qui, il castello infatti non è dimora di isolamento ma quartier generale con tutte le tecnologie all’avanguardia dell’epoca. E’ soprattutto nello studio privato che davvero sembra un Ludwig fuori di testa; fa venire su tutti i consiglieri di amministrazione da San Francisco come i ministri della Baviera, però qui con gli aerei privati che atterrano sulla fettuccia ancora oggi in funzione nella proprietà; e li riceve in questa abbazia con coro ligneo tipo Cavalieri della Tavola Rotonda, con una biblioteca con prime edizioni di Jack London e Dickens. Nei corridoi pietrosi da Nome della Rosa, un’edicola con tutti i suoi giornali che ogni giorno arrivano su freschi. E telefoni in ogni stanza, e uno per le sue passeggiate, con speciale cavo di un chilometro (il primo cellulare della storia, praticamente).
Il pavimento è cotto italiano? - chiediamo per far piacere alla guida. “No caro, è klinker californiano”.
I bagni in marmo del Vermont
Per visitare le cucine bisogna rifare un altro tour, altri venticinque dollari; e il palazzo ha una facciata rimasta al grezzo, perché Hearst aveva finito i soldi; nel 1938 infatti i giornali sono in crisi e l’edificazione si ferma. Come in tanti palazzi principeschi, e chiese italiane (Santo Spirito a Firenze) quello che oggi appare sublime minimalismo talvolta è solo la fine del budget. Come nel solito castello di Ludwig, i palazzi rimangono al grezzo, paiono modernissimi ma o è defunto il committente o sono finiti i soldi (come a Herrenchiemsee).
Qui dunque rimangono queste altissime facciate affascinanti di cemento armato con le bifore prefabbricate che aggettano su cortili con pozzi tipo Venezia, e campi di basket da Bronx, dunque straniamento. Dentro, frigoriferi ciclopici elettrici e ufficio dello chef, e una enorme piano di preparazione dei cibi a isola riscaldato, un cartello informa degli orari: prima colazione alle 9, lunch a buffet per stare liberi alle 14, cena alle 9. C’è un grande spiedo per i polli che si allevavano nella tenuta, molti bicchieroni e brocche colorate per alcolici anche durante il proibizionismo, ma soprattutto si scende tramite scala a chiocciola attorno a un ascensore che portano a queste cantine, provviste soprattutto di un Chianti “svizzero-italiano” che andava molto in California ai primi del Novecento; molti vermouth, rum Bacardi con le sue bottiglie tutte impolverate, tanti Chateau, champagne Cordon Rouge, e “la famiglia viene a prendere qualche bottiglia, tirano su qualche grande rosso, recentemente hanno aperto un Madera”, dice la guida, perché nell’accordo geniale con l’Ente Parchi c’è scritto che hanno una specie di usufrutto anche sui vini (non sbagliano un colpo, questi Hearst).
Al piano terra c’è anche un cinemino privato, con tanti scranni di velluto rosso e tanto spazio per le gambe; va in onda un filmino amatoriale dei bei tempi, ecco Charlie Chaplin che suona la racchetta da tennis come fosse una chitarrina, qui nel campo da tennis del castello, ecco Carole Lombard, ecco poi tutti i pupazzetti inventati da Hearst: Betty Boop, Felix il gatto (Hearst era anche il più grande produttore di cartoni animati del mondo). Zebre e orsi bianchi (gli stalli sono sotto il campo da tennis). E poi in fondo ci sono delle panchette per i poveri, e la servitù, più strette, tipo economy class.
Qui nel palazzone centrale non ci abitava nessuno; come spesso accade il committente preferisce stare in qualche posto più cozy; così ai piedi della cattedrale-castello ecco questi cottage, che sono invece già moderni, già un po’ case organiche alla Lloyd Wright, ma impiallacciati e incrostati di decori da villa medicea e tanto alluminio dorato, e bow windows marocchini. Sono tre, Casa del Mar, casa del Monte e casa del Sol, a seconda delle viste, sono stati terminati nel 1921 e dunque hanno tutte le tecnologie dell’epoca, riscaldamento a gas, docce, ampi bagni con le loro vasche con le zampe, abitabilissimi anche oggi. Dentro, però, il delirio di arredi toscani, pezzi inestimabili e svuota-cantine, ritratti di gentiluomini farlocchi e stemmi di cardinali spagnoli. Ci hanno abitato Churchill, Cary Grant, Chaplin, in soggiorni più o meno lunghi.
Nella Casa del Mar, dove abitavano invece Hearst e la vicemoglie, doccia addirittura con idromassaggio, telefoni di bachelite, ancora la sua cappelliera della premiata ditta Dobbs di Londra, enormi portefinestre con vista sull’oceano e sull’aeroportino privato, la airstripe in uso ancora oggi. Vi atterravano Peter Lindbergh, Howard Hughes, perfino Malcolm Forbes con un enorme 727. L’aeroporto appartiene ancor oggi alla Hearst Corp., a ulteriore conferma che “essere allevati dalle banche”, trauma primario del Citizen Kane, pare invece proficuo soprattutto rispetto alla conservazione testamentaria, rispetto a certi testamenti confusi o assenti di tante zie e nonne.
Il pavimento è cotto italiano? – chiediamo per far piacere alla guida. “No caro, è klinker californiano”. I bagni invece sono in marmo del Vermont, pare pregiatissimo. Le portefinestre hanno passaggi speciali, coi servi che saltano dentro e fuori senza essere visti (all’epoca c’erano venti persone di servizio, spiega la guida, neanche tantissime visto le 136 stanze). Però al castello era tutta una “social obligation”, spiegano, forse per non rendere troppo invidiosi i visitatori.
Qui nei cottage visse anche per un po’ Patricia Hearst, rapita nel 1974 dai guerriglieri dell’Esercito di liberazione simbionese, un gruppo farlocco di terroristi che si ispirava alle Br italiane; poi lei si prende benissimo, diventa terrorista in proprio, fa una rapina in banca, viene processata, condannata, vergognosamente graziata da tutti i presidenti americani, oggi ha sposato la sua guardia del corpo e vince tutti i concorsi canini d’America con i suoi chihuahua. Le guide-boy scout però sono molto aziendaliste e danno del caso una versione rimaneggiata, dicono subito “figuriamoci, come si può immaginare che con tutti quei soldi potesse neanche pensare di far parte di una rapina” (ma ci sono le immagini delle telecamere). Una signora del pubblico scuote infatti la testa. “Le è stato tolto persino il passaporto, pensate” (sdegno generale sotto i ritratti dei cardinali finti).
Man mano che si sale il castello diventa più spoglio, le pareti
di cemento armato, la torretta dell'ascensore grezza
Negli ultimi anni il fondatore si trasferisce nel corpo centrale, ma intanto sono gli anni Quaranta, cambiano gli arredi, più sobri, dei chippendale, dei bagni mai usati, nuovissimi, c’è una grande stanza a baldacchino per Marion Davies, soprattutto per i nipoti. Sembra un hotel, sparite tutte le incrostazioni, ci sono i termosifoni, diventa una casa abitabile ancor oggi. Man mano che si sale il castello diventa più spoglio, le pareti di cemento armato, la torretta dell’ascensore grezza, che sembra Tadao Ando. I piani superiori son stati abitati per una settimana in tutto. Poi son tutti morti.
E’ anche, si capisce, uno dei casi più interessanti di rapporto committente-architetto (la casa la finiscono che sono entrambi vecchissimi, decrepiti: lui muore nel 1951, l’architetta nel ’57). Poi la casa viene chiusa. Lui era altissimo, enorme, lei piccolina, con la bombetta, gli occhiali tondi, discendente di una grande famiglia del cotone, probabilmente lesbica.
Ogni tanto gli Hearst vengono su ancora, e tra qualche settimana, dice la guida, il castello fa orario ridotto perché c’è un party di famiglia, mentre l’ultimo grande evento è stato l’anno scorso con l’addio al nubilato di Lydya Hearst, figlia di Patti, modella e attrice di Gossip Girl, che prima di impalmare un belloccio televisivo ha riunito qui alcuni amici e hanno festeggiato per tre giorni al castello. Hanno riempito anche di inflatable, cioè galleggianti, la celebre piscina romana (altro giro, altri 25 dollari. La piscina coperta, riscaldata, con milioni di tessere di mosaico blu). Visto che siamo al terzo tour, abbiamo speso 75 dollari, la guida si intenerisce e ci porta in un fuori programma, a vedere gli spogliatoi segreti di questa piscina, ma soprattutto il reparto manutenzione, con i compressori e le autoclavi e le pompe, e tubi come nel ventre di un piroscafo; e poi, enorme, misterioso, grande quanto un appartamento, c’è il deposito del calcare; un cilindro di vetro. Pieno, a strati, di una sabbiolina che cambia colore con le stratificazioni, col calcare di queste piscine che si deposita incessantemente dal 1920. Ha raccolto le nuotate di Chaplin, di Carole Lombard, di Walt Disney, di Churchill. Lì dentro, a voler essere un po’ retorici, c’è depositato il calcare dell’America.