Il ritratto, un coming out
Le piscine californiane, gli statuari ragazzi “in ammollo”, le figure e i volti fissati sulla tela. L’arte di David Hockney è una rivelazione permanente. Le ultime opere a Venezia, e ora a Bilbao
Quando si pronuncia il nome di David Hockney, nel mondo dell’arte ma non solo, l’immaginario collettivo si sposta subito sulle colline di Los Angeles dove lui, oggi ottantenne, a un certo punto della sua vita, dall’Inghilterra (è nato a Bradford, nello Yorkshire, nel 1937), ha deciso di trasferirsi facendo costruire la sua villa-laboratorio sullo stesso terreno dove un tempo c’era un campo da tennis. Vengono subito in mente le sue celebri piscine, icone d’arte del Ventesimo secolo, raffigurate con dovizia di particolari e arricchite da quella capacità che ha avuto solo lui di rendere così bene la trasparenza dell’acqua. In totale, sono più di venti quelle dipinte nel corso di una carriera durata sessant’anni (che continua ancora oggi), esposte nei più importanti musei del mondo, in maniera permanente o per pochi mesi in occasione di una mostra in suo onore. Quella più conosciuta è sicuramente “A Bigger Splash” del 1974, un titolo e un tema ripreso dal regista Luca Guadagnino per il suo omonimo film di due anni fa, e, prima ancora, da Jacques Denay nel film “La piscina” con Alain Delon e Romy Schneider. La villa dai colori pastello, con le due palme sulla destra e le enormi vetrate, è lì, davanti allo spettatore, come il trampolino giallo in primo piano da cui un uomo (o una donna?) si è appena tuffato e il tutto è talmente invitante che verrebbe a chiunque la voglia di farlo.
Il suo dipinto più celebre, "Mr and Mrs Clark and Percy". La bellezza e l'eleganza di lei sono disarmanti, così come la freddezza e la distanza di lui.
Dici Hockney e non si può non pensare ai suoi ragazzi “in ammollo”, quasi sempre nudi e con i loro fisici statuari, ripresi da dietro, come l’artista Peter Schlesinger, all’epoca suo amante, in “Peter Getting Out of Nick’s Pool” del 1966 o mentre nuota sott’acqua in “Portrait of an Artist (Pool with two figures)” del 1972, un’altra sua celebre conversationpiece, come viene definita, ambientata a Saint Tropez e oggi di proprietà della collezione Lewis di Sidney.
Dici Hockney e la mente va al suo dipinto più celebre, “Mr and Mrs Clark and Percy” (1970-71), realizzato quando lui era già celebre, tanto che venne subito acquistato dalla Tate Britain per la collezione permanente. Con quest’opera, l’artista ci porta in un interno londinese, a Notting Hill Gate, in una casa poco distante da Hyde Park dove abitava quella coppia a lui molto cara (fu anche il loro testimone di nozze, nel 1969), due designer molto in voga in quel periodo raffigurati con toni affettuosi e mai satirici. La bellezza e l’eleganza di lei sono disarmanti, così come la freddezza e la distanza di lui (negli anni successivi, fu rovinato dalla cocaina e dagli acidi), che sembra essere più attaccato al gatto bianco poggiato sulle sue gambe (il cui vero nome era Blanche) che alla moglie, la quale – qualche anno più tardi, a matrimonio finito – tornò a essere Celia Birtwell, divenendo spesso uno dei soggetti preferiti dall’artista per i suoi quadri. Hockney li osserva e ne riproduce ogni minimo particolare – dagli anelli ai capelli della donna alla sigaretta e ai piedi dell’uomo nascosti nel folto tappeto – così come ritrae gli oggetti della stanza (il telefono bianco, la lampada, il libro gallo, il quadro e i fiori, simbolo di purezza): niente sfugge a quell’osservatore attento, ossessionato – ma nella sua accezione più positiva – dal ritratto. Perché – come ha spiegato al Foglio quest’ottantenne che conserva sempre la sua montatura tonda e nera e il caschetto che da biondo è oggi bianco – “il volto umano è espressione della soggettività individuale ed è un tema che vanta fascino, complessità e valore illimitati”. Analizzando i suoi lavori, infatti, si nota come la ritrattistica scorra in tutta la sua opera, dal primo quadro fino alle nuove tele realizzate sessant’anni dopo, compreso quello a un altro grande artista inglese, Lucian Freud, che lo ritrasse a sua volta. Quelle tele, dopo essere state esposte alla Royal Academy of Arts di Londra, sono state a Venezia, a Ca’ Pesaro – dove abbiamo incontrato l’autore – nella grande retrospettiva “David Hockney: 82 ritratti e una natura morta” – che da qualche giorno si è spostata al Guggenheim Museum di Bilbao per proseguire poi al Los Angeles County Museum of Art.
Sono tutti seduti sulla stessa sedia, inglobano il colore e lo restituiscono imbevuto di una nota psicologica individuale e unica
“In un’epoca come la nostra, tutti registrano e fanno circolare immagini di persone, e i ritratti sono oggi realizzati, osservati e salvati in una quantità mai vista prima”, ci ha spigato Edith Devaney che ha curato la mostra nella laguna veneziana, organizzata dalla Royal Academy of Arts di Londra in collaborazione con la Fondazione Musei civici di Venezia. “L’attività digitale ha assorbito la pratica della ritrattistica a un livello tale che la sua sopravvivenza sembra avere una sorta di equilibrio precario”, ha aggiunto. “Per David Hockney, il ritratto ha avuto la sua importanza e poco importa se disegnato, dipinto o meticolosamente assemblato da frammenti di fotografia, o da tutte queste cose insieme”, ha scritto Tim Barringer nel catalogo ragionato pubblicato da Skira. “Il ritratto è il risultato dell’incontro tra due persone, un momento di intimità umana, un attimo di rivelazione”. Sicuramente – ha spiegato citando Richard Brilliant, studioso di arte romana – è un’immagine umana, personalizzata da caratteristiche fisiognomiche, soggetta all’interpretazione artistica e psicologica, presentata come opera d’arte e dipendente dalle mutevoli circostanze della percezione. Hockney vi si dedicò sin da quando intraprese quella che poi divenne la sua professione: “A sette anni decisi che volevo dipingere, a sedici ero alla Bradford School of Arts e a diciotto anni mi trasferii a Londra”, ha raccontato più di una volta. Quelli che fece a sé stesso adolescente dal 1954 mostrano con evidenza il suo voler celebrare la propria consapevolezza di omosessualità e quella performance della propria identità gay, a ben vedere, domina tutte le opere dei suoi anni da studente, un vero e proprio comingout decisamente coraggioso per l’epoca. In “Doll Boy” (1960-61) ad esempio, creò un ritratto esplicito di una celebrità citata solo in codice (come rivelano le due iniziali “C. R.” apposte sul dipinto, si trattava di Cliff Richard, con cui ebbe una relazione mai confermata da quel cantante pop, autore della canzone “Living Doll” del 1959), trasformandolo in un ruolo perfetto, a suo avviso, per esprimere il desiderio sessuale di un uomo verso un altro uomo invece che considerarlo come luogo dove riaffermare, a sua volta, luoghi e identità tradizionali. Audace e anticonvenzionale, nel 1961 decise di sconvolgere pubblico e critica con “The Last of England?”, un’opera in cui ha riprodotto a suo modo l’omonimo dipinto di Ford Madox Brown del 1853. Se però il secondo è un emblema dell’orrore provato da una famiglia borghese vittoriana costretta a emigrare nelle colonie per necessità economiche, quello di Hockney, con il volto di uno dei due personaggi volutamente offuscato, è la sua libera interpretazione di una coppia gay diretta, probabilmente, verso la libertà negli Stati Uniti per sfuggire alla cultura repressiva dell’Inghilterra del dopoguerra. Una tematica, quella dell’omosessualità, che si ritrova anche in “American Collectors (Fred and Marcia Weisman), un dipinto del 1968 con cui Hockney tornò al ritratto dopo una breve interruzione, grazie alla scoperta delle opere di John Singer Sargent, ritrattista dell’età d’oro americana. Nel quadro, i due coniugi, lui in abito scuro, lei in rosa, sempre più distanti e alienati, sono il simbolo di un matrimonio burrascoso e puramente di facciata, celebrato solo per nascondere la vera sessualità dell’uomo e agevolarlo nella scalata sociale.
Negli anni, Hockney ha continuato a fare ritratti, come i dodici dedicati ai custodi della National Gallery di Londra e, prima ancora, persino attraverso fotografie realizzate in serie a Los Angeles anticipando il periodo dedicato, invece, al paesaggio e alle tradizioni insulari della pittura inglese, da cui una mostra che ebbe un grande successo (“A Bigger Picture”, ospitata nel 2012 a Londra, sempre alla Royal Academy of Arts), con dipinti a olio en plein air, estesi cartoon a carboncino, video installazioni multi-screen, stampe digitali e disegni realizzati sull’iPad.
"Il volto umano è espressione della soggettività individuale ed è un tema che vanta fascino, complessità e valore illimitati"
Quelli visti a Venezia, oggi nel museo losangelino, sono più particolari perché nati dopo periodo difficile da lui vissuto in seguito alla morte accidentale di uno stretto collaboratore, Dominic Elliott, che ingerì un detergente in preda agli effetti dell’ecstasy e della cocaina. Noto per la sua produttività costante ed energica, Hockney si ritrovò da un momento all’altro condannato al silenzio, incapace di dipingere e di disegnare fino al luglio del 2013, quando, in soli tre giorni, realizzò il ritratto a J-P Gonçalves de Lima, musicista e suo collaboratore. Su uno sfondo verde e blu, c’è la figura di un uomo seduto su una poltrona gialla con i piedi che poggiano su un tappeto colorato. E’ distrutto e ha le mani nei capelli, anche lui colpito dalla morte tragica e insensata del ragazzo. Quel dolore e quel volto, invisibili allo spettatore, possono essere paragonati, per la postura e non solo, all’opera “Uomo anziano nel dispiacere” (1890) di Van Gogh – come ha ricordato lo stesso artista che in tal modo è come se avesse voluto fare un suo autoritratto. Questo è il primo di quelli eseguiti tra il 2013 e il 2016, considerati dall’artista un unico corpus di lavori, una visione singolare e unica della vita odierna a Los Angeles e delle sue relazioni con il mondo artistico internazionale, con galleristi, critici, curatori, artisti e volti noti. Ogni ritratto è infatti concepito nell’ambito di un formato rigorosamente controllato, omogeneo, conferendo così al progetto artistico una valenza scientifica. Il risultato è un’opera artistica composita, ambiziosa e di dimensioni ragguardevoli, il suo studio personale sulle età dell’uomo e di alcune donne, dall’infanzia alla vecchiaia. Le tele, in formato verticale, hanno tutte le stesse dimensioni: 121,9 x 91,4 centimetri. Si tratta di persone a lui vicine, amici e collaboratori, parenti o conoscenti di cui ha studiato posa e postura, riaffermando così la sua indomita fede nelle qualità salvifiche della vita e dell’arte. Sono tutti seduti sulla stessa sedia, inglobano il colore e lo restituiscono imbevuto di una nota psicologica individuale e unica. Nell’insieme formano un corpus organico intriso di humour e intimità che nella sua opera diventa una sorta di album familiare, confermando il ritratto come un genere che porta avanti con tenacia e passione da sessant’anni. «Sono per lo più amici”, ci ha spiegato, “non accetto commissioni, non faccio ritratti a chi me lo chiede, perché non devo passare il tempo a pensare di realizzare un’opera gradevole per qualcuno. Non devo compiacere, ma soddisfare solo me. La natura non ama ripetersi. La cosa interessante negli esseri umani è che siamo tutti diversi, come i fiocchi di neve”.
I ritratti che fece a se stesso adolescente dal 1954 mostrano il suo voler celebrare la propria consapevolezza di omosessualità
A rendere ancora più originale la mostra, l’unica natura morta, ritratta come variopinta sostituta di un soggetto assente. “Come Picasso, quando lavoro mi sento un trentenne, poi appena smetto sento che non è così, per questo oggi lavoro più di ieri”, ha aggiunto l’artista, omaggiato anche dal Centre Pompidou, a Parigi (con “David Hockney. Rétrospective”), dal Getty Museum di Los Angeles (con “Happy Birthday Mr Hockney”, fino al 26 novembre prossimo) e dal Salts Mils di Saltaire, nel West Yorkshire (con “The arrival of Spring”, fino al maggio del 2020). Nel frattempo, lui continua a disegnare, sempre con il suo iPad, e quel numero di ritratti è destinato ad aumentare giorno dopo giorno. “E’ un lavoro senza fine – ci ha detto – e potrei continuare fino all’ultimo dei miei giorni”. Viste le premesse, ne siamo più che sicuri.