Si riaffaccia la censura
Troppe fake news? L’Economist pensa di mettere la mordacchia a internet. Ma è paradossale vedere i campioni del liberismo alle prese con l’idea di arginare il diritto alla parola. Uno sguardo al passato
Quando nel luglio scorso è morto il premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo, e anche le circostanze della sua morte furono sottoposte a censura da parte del governo cinese, la notizia è volata via quasi innocua. Alle nostre latitudini parole come “dissidenza” suonano esotiche, come i giornalisti in galera in Turchia. Il samizdat è esistito, ma nessuno lo ricorda più. Siamo alle prese con una minaccia inversa. La libertà di parola assoluta e il suo infinito moltiplicatore digitale hanno generato la valanga delle fake news e degli hate speech. Ma anche sul fronte dell’editoria regolare, o nel mare del self publishing, distinguere il grano dal loglio è un’impresa. Non siamo più abituati ad alcun limite d’autorità. Non lo accetteremmo. Poi si scopre che 146 milioni di americani sono stati inondati da informazioni false in grado di condizionarne le scelte politiche (ma articoli e trasmissioni che invitano a mangiare solo biscotti senza olio di palma, non sono peggio di un condizionamento elettorale?) e scatta l’allarme. “Contrastare le fake news è il più grande problema che oggi i politici debbano affrontare nel mondo”: Jim Messina, il famoso stratega della comunicazione, lo aveva detto già nel 2010. L’Economist ha tracciato la sua red line, che sarà d’ora in poi difficile superare: non è ora di chiuderlo, internet? O almeno di mettere la mordacchia ai monopoli industriali della produzione di parole? In nome della libertà, s’intende. I campioni del liberismo alle prese con l’idea di arginare il diritto di parola sono un bel paradosso. Un po’ come quando nell’Ottocento i censori britannici in India dovevano ammettere che la libertà di stampa, che in patria era un caposaldo liberale, lì era “un lusso per occidentali”.
A poco a poco, quella parola che pensavamo dimenticata, quel tabù sconfitto del passato, che sapeva di inquisizione e di repressione, è tornata a farsi viva: censura. Timothy Garton Ash è un campione liberal. In Italia è appena uscito (Garzanti) il suo libro Libertà di parola, un decalogo del buon comportamento nel mondo globale. Il problema di regolamentare scorre per oltre 500 pagine. E verso la fine spunta la parola tabù, “censura”. Magari da “privatizzare ed esportare”. Ma a chi spettano l’onere e il potere? Agli stati, ai sovrastati o alla big industry? La faccenda è delicata, anche perché inizia molto tempo fa. Seguirne i percorsi è una storia piena di sorprese che vale la pena raccontare.
Appena usciti in Italia i libri di Timothy Garton Ash, Robert Darnton e Cass R. Sunstein. Per una storia piena di sorprese
Nel marzo del 1758 a Parigi, in un clima di fibrillazione politica e culturale, il Consiglio della corona decise di impedire la pubblicazione dell’Encyclopédie, di cui pure erano usciti i primi volumi, e di sequestrarne tutti i materiali. Ma il signor Chrétien-Guillaume de Lamoignon de Malesherbes, prima della perquisizione, “avvertì Diderot di trasferire le carte in un luogo sicuro. Diderot obiettò che non sapeva dove nascondere un materiale così ingente con un preavviso tanto breve, e Malesherbes si offrì di tenerne una buona parte in casa propria. Ufficialmente, l’Encyclopédie era stata distrutta, ma Diderot continuò… e gli ultimi dieci volumi uscirono contemporaneamente nel 1765 con la fittizia indicazione di uno stampatore di Neuchatel”. Il dettaglio interessante è che Malesherbes non era un signore qualunque. Era il Directeur de la Libraire, in poche parole il vertice onnipotente della complicata struttura per la censura sull’industria editoriale che negli ultimi decenni dell’Ancien Regime rappresentava l’autorità della monarchia su tutto ciò che si potesse scrivere e stampare. Malesherbes non era un codino, ma un uomo colto e partecipe del milieu politico culturale parigino, amico degli illuministi. Aveva anche una spiccata sensibilità nel difendere le ragioni dell’industria libraria, che una censura troppo rigida rischiava di danneggiare. Lavorava, però, dall’altra parte del mercato. Dalla parte della monarchia. Un potere che già scricchiolava, ma che soprattutto non era in grado di controllare la grande macchina culturale (ed economica) che si era messa in moto e di cui le culture war degli illuministi erano solo la punta dell’iceberg. Ma pensare che la lotta tra la monarchia e i nuovi ceti intellettuali per il trionfo della libertà di pensiero e di parola sia stata una guerra particolarmente sanguinaria, non è esatto.
Oltre alla struttura gerarchizzata dei lettori-censori-autorizzatori, esisteva anche una polizia libraria. La quale non funzionava, esattamente come la nostra Polizia postale: cioè di solito arrivava tardi e non trovava il materiale da sequestrare. Pochi casi raccontano di vere angherie del re contro la libertà dei sudditi. C’è quello sorprendente di Marie-Madelaine Bonafon, una cameriera di basso ruolo che lavorava a Versailles. Aveva una vera mania per i romanzi passionali e ne scriveva lei stessa, una rarità per una cameriera dell’epoca. Ne scrisse però uno, La vie de Madame la comtesse du Barry, che allarmò corte e censori. Era uno di quei romanzetti “a chiave” (la chiave era un foglietto segreto venduto a parte, che consentiva di attribuire il vero nome ai personaggi) con cui si facevano uscire pettegolezzi, o calunnie, sui malcostumi, spesso erotici, della nobiltà e che tanto contribuirono a istillare nel popolino l’odio verso l’aristocrazia. Stavolta la Bonafon aveva mirato troppo in alto, la cameriera scrittrice finì alla Bastiglia, le fecero il terzo grado, i suoi complici e stampatori smascherati. Lei passo dieci anni reclusa in un convento di suore.
Ma il tema vero è: a chi spetta l'onere e il potere del controllo? Alla politica? All'industria? Di sicuro, non ai singoli individui
Più spesso la relazione tra censori e autori procedeva in un cerimoniale di controllo e autocontrollo, che cercava di garantire l’ordine sociale e non suscitare malcontenti. La rete dei censori era un “outsourcing” monarchico di pochi capi bene informati e di un esercito di lettori e correttori mal pagati appartenente al basso rango intellettuale – insegnanti, piccolo clero, poetucoli, scrittori di scarsa fama – che cercavano di accontentare i datori di lavoro imponendo, spesso, ai manoscritti tagli e riscritture in base al proprio gusto e alla preparazione. Un sistema complesso, che in molti casi finiva per somigliare al lavoro che oggi chiameremmo di un buon editing, il cui “dietro le quinte faceva sì che spesso amici e colleghi agissero da censori gli uni delle opere degli altri”. La censura nell’Ancien Regime era un sistema consolidato, in cui il vantaggio di tutti era pubblicare senza rischi (autori e stampatori) e senza dannarsi l’anima (i poveri controllori, che oggi sarebbero sostituiti da un algoritmo) terrorizzati di dare per sbaglio il proprio placet a libri che poi facevano infuriare il potente di turno. Casi non infrequenti. Lungi dall’essere la sanguinaria macchina repressiva che abbiamo sempre immaginato, la censura nella Francia di Luigi XV era un groviglio di norme e di taciti accordi tra il Potere, il Mercato e gli Autori attorno ai mutevoli concetti di libertà e di “sapere” in una società che stava diventando dannatamente complessa.
Il racconto lo fa Robert Darnton, uno storico statunitense raffinato, specialista del Settecento francese e della storia dell’editoria. Il suo libro I censori all’opera, appena pubblicato da Adelphi, è una lettura magnifica, consigliata non soltanto a chi abbia il gusto delle lettere e della storia ma anche a chi voglia farsi un’idea meno pavloviana di cosa significhi controllare, e con quali limiti, il mercato delle idee. Seppure Darnton avvisi subito che “la storia dei libri e dei tentativi di tenerli sotto controllo non darà luogo a conclusioni direttamente applicabili alle politiche che governano la comunicazione digitale”. Ma “l’attività dei censori ci mostra come ragionava chi prendeva le decisioni politiche”. Il libro è composto da tre lavori differenti. Oltre a quello sulla Francia dei Lumi (nota Darnton che le maglie della censura si fecero assai più strette, dopo la Rivoluzione), c’è il racconto, costruito su un capillare lavoro sulle fonti dirette, di come funzionò il controllo da parte dell’Impero britannico sulla stampa e l’editoria libraria indigene nell’India di metà Ottocento. Altro capitolo istruttivo. Perché si tratta di uno stato, l’Impero britannico, che almeno dal Settecento aveva regolato la libertà di stampa con leggi improntate ai principi liberali. La poca censura puntava le sue armi contro i casi di calunnia privata o contro istituzioni – ma con una via via maggiore deregulation, che imponeva l’onere della prova ai querelanti proprio a difesa della libertà d’espressione – e qualche eccesso contro la pubblica morale. Ma in un dominio coloniale, in cui l’integrazione di popoli diversi nella grande architettura britannica procedeva di pari passo con le opposizioni etniche e con l’onnipresente incubo della sedizione, un controllo ci voleva. L’impero aveva il doppio problema di tutelare se stesso e di dimostrare ai sudditi indiani che le regole valevano per tutti. Però c’erano regole che si applicavano solo a loro, non era semplice da spiegare. Repressione e tribunali erano comunque l’ultima ratio. Di preferenza, Londra si dotò di un monumentale apparato burocratico, che oggi ci appare come un precursore dell’analisi dei big data. Centinaia di solerti lettori schedavano, in migliaia di enormi registri suddivisi in dodici colonne, tutto ciò che veniva stampato: con rilievi politici, giuridici, linguistici e persino stilistici. Conoscere (in tempo reale) per controllare, prima di dover punire.
Nel 1758 a Parigi il Consiglio della corona decise di impedire la pubblicazione dell'Encyclopédie. Malesherbes avvertì Diderot
La tragedia orwelliana della ex Germania Est ci è più familiare, grazie a film come Le vite degli altri. Darnton la documenta dal vivo. Sette mesi dopo la caduta del Muro entra “al civico 90 di Clara Zetkin Strasse, l’ufficio censura della DDR”. Oltre a compulsare fascicoli di grande interesse, ha la possibilità di parlare, a cadavere caldo, con alcuni “informatori indigeni”, i censori-burocrati che ancora stanno lì, negli uffici, ad aspettare il proprio destino. Entriamo nell’incubo, che già non ricordiamo più, del totalitarismo del Novecento. Ma anche qui, Darnton ci accompagna a scoprire un sistema di controllo più articolato, votato a costruire una “Leseland”, una “patria di lettori”, nel suo folle modo ideale. Con meno larghezza che nella Francia dei Lumi, anche qui sopravvive lo “spielraum”, il “margine di manovra all’interno di un sistema flessibile di relazioni umane”, che ogni tanto consente di mitigare le regole. Tra disperazioni, aspirazioni, e ovviamente parecchie ipocrisie.
Censurare è una faccenda complicata, ma a differenza di quanto sosteneva Leo Strauss i censori sono tutt’altro che stupidi. A seconda del regime storico in cui operano sanno essere più o meno arcigni. Malvagi, quasi mai. Ma questo è il passato, assolutista o totalitario. Nella chiusa del libro, con sottile ironia, Darnton ammette che bisogna saper relativizzare, per capire le cose. Però le ultime parole sono un atto di fede nel Primo emendamento.
Darnton racconta come funzionò il controllo da parte dell'Impero britannico sulla stampa nell'India di metà '800
Il Primo emendamento non è solo una faccenda americana, è il faro dell’idea del mondo che abbiamo accettato e a cui non vogliamo rinunciare. E poiché molte tra le più grandi aziende che controllano il nostro pensiero e ci concedono il privilegio della libertà di parola là stanno, i destini del Primo emendamento riguardano anche noi. L’Economist scrive che “i social media sono un meccanismo per catturare, manipolare e consumare attenzione come nessun altro. Il che significa che il potere di questi media è un potere di proprietà, regolazione e manipolazione di immensa importanza politica”. E’ chiaro che non è solo un problema di fake news. Ci sono gli hate speech, c’è una corsa al controllo del linguaggio e dei confini del dicibile che nell’accademia anglosassone ha imboccato un gorgo preoccupante. La capacità di influenza di paesi stranieri non liberi sulle opinioni pubbliche e persino sulle pubblicazioni scientifiche è nota.
La parolina magica “censura” percorre, con molti pudori, un altro libro interessante appena edito dal Mulino, #republic – La democrazia nell’epoca dei social media. Lo ha scritto Cass R. Sunstein, un pezzo da novanta del mondo giuridico americano, un uomo colto e influente, è stato il referente e il maître à penser di Obama in materia di regolamentazioni. Il libro è assai articolato, ma verso la fine si mette a tema proprio il dibattito che interessa da molti anni la Corte suprema sul Primo emendamento e sui suoi possibili limiti. Sunstein è un liberal che si è informato, a parlare di censura ha pudore, preferisce l’autocontrollo. Alla fine butta lì anche il sogno che si possano creare “i tasti della serendipity”, in modo che da Facebook, con un semplice clic, un algoritmo buono ci conduca immediatamente a scoprire altri link che la pensano al contrario di noi. Ma il tema vero è più complicato: a chi spetta l’onere e il potere del controllo? Alla politica? All’industria? Di sicuro, non ai singoli individui. Basta guardare il frontespizio dei libri francesi del Settecento: potevano essere pubblicati solo con “beneplacito e privilegio del re”, il vero detentore del potere di censura. Chi concede questo “privilegio”, oggi? A un certo punto Sunstein fa un’affermazione illuminante: “Un’opinione che va affermandosi è che il Primo emendamento impegni il governo a rispettare la sovranità del consumatore”. Dove l’equivalenza tra individuo e “consumatore” è forse la spia giusta per indicare chi, nel futuro, potrà concederci il privilegio di parola.
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