Gian Lorenzo Bernini, “Apollo e Dafne” (particolare), 1622-25 (Roma, Galleria Borghese). La mostra “Bernini” è aperta nella stessa Galleria Borghese fino al 4 febbraio 2018

Il divo barocco

Maurizio Stefanini

Scultore, architetto, commediografo dagli effetti speciali: era il mago dell’immagine nella Roma del Seicento. Lorenzo Bernini in mostra

Fu “lo scultore dei Borghese”, e colui da cui la Galleria Borghese ha preso la sua anima. Il progetto, è vero, era stato di Flaminio Ponzio. I lavori li aveva poi finiti Giovanni Vasanzio. Ai giardini pensò Carlo Ranaldi. Lì dentro è custodita anche quella “Paolina Borghese come Venere vincitrice” che è allo stesso tempo un capolavoro di Antonio Canova e una copertina di Playboy ante-litteram. Sono però sue le opere che danno il la al tutto, e in nome delle quali è stato deciso di celebrare i vent’anni dalla riapertura della Galleria. “Bernini”: così semplicemente si chiama la mostra in agenda dal primo novembre al 4 febbraio. Un evento che il finanziamento della Fondazione Fendi pone anche a modello di un rapporto positivo tra pubblico e privato per la promozione della cultura. Ma, tiene a ricordare la direttrice Anna Coliva, Borghese a parte, fu Bernini il “mago dell’immagine della Roma barocca”. Colui che servendo ben nove papi di fila finì per essere una sorta di ministro dell’Urbanistica dell’Urbe, scusate il bisticcio, costruendone l’immagine che oggi tanto affascina i turisti. “T’invidio turista che arrivi / t’imbevi de fori e de scavi / poi tutto d’un colpo te trovi / fontana de Trevi ch’e tutta pe’ te”, ricorda appunto “Arrivederci Roma”. “Ce sta ’na leggenda romana / legata a ‘sta vecchia fontana / per cui se ce butti un soldino / costringi er destino a fatte tornà / E mentre er soldo bacia er fontanone / la tua canzone in fondo è questa qua”.

 

La Fontana di Trevi, appunto. “Arrivederci, Roma/ Good bye, au revoir”. Ve lo ricordate “Totò Truffa”? “Di’ un po’, chi l’ha fatta ’sta funtana paisà?”. “Un mio bisnonno”. “Bisnonno”. “Sì, sì. Fece venire apposta uno scultore dalla Svizzera”. “Aspetta paisà, qui dice che è dello scultore Bernini…”. “Appunto! Siccome veniva da Berna, era piccoletto, lo chiamarono il Bernini”. Grande Totò! In realtà Gian Lorenzo Bernini, morto a Roma il 28 novembre 1680, era nato a Napoli: esattamente il 7 dicembre 1598. Alla mostra assieme a trenta sculture che vengono da tutto il mondo c’è anche tutta la sua produzione pittorica: “Che non è sterminata”, ricorda Anna Coliva, “ma è importante”, ed è la prima volta che quadri, statue e progetti architettonici sono mostrati tutti assieme. “La sezione dedicata alla Pittura completa la descrizione di Bernini come artista a tutto tondo”, ricorda la guida. Tra questi dipinti ci sono appunto anche un “Autoritratto maturo” ed un “Autoritratto giovanile” dal tipico profilo partenopeo: sguardo intenso, lineamenti fini, una bella chioma bruna.

 

Trenta sculture da tutto il mondo. Per la prima volta quadri, statue e progetti architettonici sono mostrati tutti assieme

Ha molto di stereotipo napoletano – anche se di una Napoli deteriore in stile “Gomorra” – l’altra storia legata al “Busto di Costanza Bonarelli”: un’opera risalente al 1636-38, che alla mostra è stata prestata dal Museo nazionale del Bargello a Firenze. Figlia di uno stalliere e moglie di uno scultore allievo del Bernini, la ragazza qui effigiata divenne l’amante del maestro, ma lo tradì col suo fratello minore Luigi. Appunto, in stile “Gomorra” o sceneggiata, quando la cosa fu scoperta Gian Lorenzo spaccò a bastonate due costole al fedigrafo e fece sfregiare la “zoccola” da un servo: roba pesante anche per i codici penali dell’epoca, ma la mamma intervenne in suo favore presso Papa Urbano VIII, e l’esagitato artista se la cavò con una multa. Proprio dalla mamma, che era una popolana di nome Angelica Galante, Bernini doveva aver preso quella fisionomia così partenopea.

 

Papà Pietro, infatti, era toscano: uno scultore tardo-manierista che era nato a Sesto Fiorentino, e che si era trasferito su invito del viceré per lavorare alla certosa di San Martino. Accompagnandolo a lavorare il marmo, Gian Lorenzo fin da ragazzino si era appassionato a sua volta del mestiere, con Pietro aveva iniziato a lavorare, e ben tre delle otto sezioni della mostra ci ricordano questa collaborazione. “L’apprendistato con Pietro”, la prima, ha come oggetto l’attività giovanile di Gian Lorenzo fino al 1617 circa, con un focus sulle opere realizzate in stretto dialogo o in diretta collaborazione col padre. E subito emerge una straordinaria padronanza dello scalpello ereditata proprio dal genitore. “La giovinezza e la nascita di un genere: i putti”, la seconda: la famosissima “Capra Amaltea” che allattò il piccolo Giove, e altre cose che però il Gian Lorenzo Bernini maestro affermato cercò di far dimenticare proprio perché non voleva essere ricordato per quelli che ormai considerava compitini da ragazzino. “Restauro dell’antico”, la quarta: e qui sono messi a confronto il “Marco Curzio Borghese” di Pietro assieme ai suoi “Ermafrodito” e “Ares Ludovisi”. Il secondo è una copia romana del 200 a.C. di un originale greco di Scopa o Lisippo del 320 a.C.; fu ritrovato nel 1622, e Gian Lorenzo ci aggiunse tra l’altro un Amorino. Il primo risale invece al II secolo d.C., ed era risaltato fuori all’inizio del ‘600. Gian Lorenzo nel 1619 ci aggiunse un letto di marmo di eccezionale realismo, anche se il pubblico è forse più attratto dall’ambigua sessualità che si esplicita girando dall’altra parte.

 

Totò a parte, però, la Svizzera effettivamente con la leggenda di Bernini c’entra qualcosa. Dal Canton Ticino veniva infatti quel Francesco Borromini che a Roma aveva cominciato come allievo e collaboratore di Gian Luigi, per poi diventare un suo acerrimo rivale. “La collaborazione fra i due artisti durò poco, e col passare degli anni il malinteso degenerò in aperta inimicizia”, raccontano Indro Montanelli e Roberto Gervaso nella loro “Italia del Seicento”. “Ne ignoriamo i motivi. Forse il caratteraccio del maestro, forse l’ipersensibilità dell’allievo, forse qualche divergenza artistica, forse una incompatibilità di carattere dovuta più alle loro somiglianze che alle loro dissonanze: non ci si odia – si sa – che tra fratelli. Forse la gelosia. Fatto sta che il Borromini piantò la fabbrica di San Pietro e andò a lavorare presso i padri Filippini, che gli affidarono la costruzione del loro Oratorio”. Se in effetti Bernini a momenti ammazzava il fratello, Borromini a 68 anni durante una crisi di nervi fece harakiri a mo’ di samurai, infilzandosi con una spada.

 

La rivalità con Borromini. La fontana e la chiesa: i due artisti sono plasticamente uno di fronte all'altro a piazza Navona

Secondo Anna Coliva Bernini fu “anche un sommo innovatore del linguaggio artistico”. Con lui “al di là degli interventi su Roma nasce la nuova idea di scultura, la nuova idea di rappresentazione del sentimento e del movimento, che influenzerà tutta la pittura e la scultura fino all’epoca di Canova”. Per questo, tra parentesi, secondo i curatori la compresenza di opere di Bernini e Canova nello stesso spazio espositivo “è come se si rimandassero la palla dall’uno all’altro”. Ma Borromini su certe cose era più rivoluzionario ancora. I progetti del napoletano, anche quelli più di impatto come la nuova sistemazione di piazza San Pietro con il quadruplo colonnato, risentivano di un postulato secondo cui poiché secondo la Bibbia l’uomo era fatto a immagine e somiglianza di Dio, allora anche le proporzioni degli edifici dovevano corrispondere a quelle umane. Il ticinese faceva invece quasi del cubismo ante litteram, costruendo facciate e campanili con insiemi di di moduli geometrici quali rettangoli, quadrati, tondi ed ovali, ripetuti in sequenze alternate.

  

Bernini e Borromini sono plasticamente uno di fronte all’altro a piazza Navona, in un modo talmente plateale che la salace fantasia romanesca non ha potuto non ricamarci sopra. Da una parte, infatti, c’è la Fontana dei Quattro Fiumi, realizzata tra il luglio 1648 ed il giugno 1651. Parte dalla copia romana di un obelisco egizio proveniente dal Circo di Massenzio, che con un gioco di prestigio tipicamente barocco è appoggiata su uno scoglio cavo: spacconata che Bernini aveva d’altronde già fatto nel 1643 con l’altra Fontana del Tritone. Attorno quattro figure allegoriche rappresentano quelli che erano considerati i fiumi più lunghi dei quattro Continenti allora conosciuti: il Nilo per l’Africa, il Gange per l’Asia, il Danubio per l’Europa e il Rio de la Plata per le Americhe. Su tutto c’è la colomba dello Spirito Santo, e il tutto rappresenta semplicemente la chiesa che trionfa nelle quattro parti del mondo. Dall’altra parte c’è però la chiesa di Sant’Agnese in Agone, che era invece di Borromini. Profonda solo una quarantina di metri, riesce a dare egualmente una soluzione di imponenza grazie a uno sviluppo in larghezza, con una facciata concava per dare più risalto alla cupola e per consentire alla scalinata che dà accesso alla chiesa di non sporgere nella piazza.

 

Dunque, secondo lo spiritaccio dei popolani romani. con la figura del Rio de la Plata che verso Sant’Agnese protende una mano con volto che potrebbe indicare spavento Bermini voleva significare un sarcastico: “Oddio! Mo’ casca!”. E anche la figura del Nilo avrebbe la testa velata non per indicare che del fiume padre della civiltà egizia allora non si conoscevano ancora le sorgenti, ma per non vedere quell’obbrobrio. Ma la “sora Agnesina” come la chiamano i romani – cioè la statuina di Sant’Agnese alla base del campanile di destra della chiesa – si porta nel contempo la mano in petto. La citata fantasia romanesca ha avuto così di che completare l’ideale dialogo tra i due rivali: “Tu non ti preoccupare, che alla chiesa ci penso io!”. La leggenda assicura pure che – pur di avere l’assegnazione della commessa al posto dello svizzero – il napoletano avrebbe regalato un modello in argento del progetto alto un metro e mezzo alla cognata di Papa Innocenzo X: donna Olimpia Maidalchini.

 

Appunto, è leggenda; non fosse altro che perché la chiesa fu iniziata almeno un anno dopo la conclusione della Fontana. E però vero che quando i fan di Borromini iniziarono a dire che la parte cava sarebbe crollata sotto a tutto quel peso Bernini per sfotterli mandò nottetempo i suoi assistenti a fissare l’obelisco con quattro sottilissime cordicelle legate alle pareti circostanti. “Vi sentite più sicuri, adesso?”. E’ pure vero che quando Borromini si vide assegnare al posto di Bernini i lavori di ampliamento di quel palazzo di Propaganda Fide che si trovava proprio al lato della casa di Gian Lorenzo, festeggiò scolpendo sul muro in direzione del rivale un paio di orecchie d’asino. Bernini rispose scolpendo a sua volta su una mensola un organo genitale maschile, e il “somaro” versus “testa di c…” in pietra rimasero a sfidarsi fino a quando le autorità in nome della pubblica decenza non ordinarono a entrambi di rimuoverli.

 

Papà Pietro era toscano: uno scultore tardo-manierista che si era trasferito su invito del viceré per lavorare alla certosa di San Martino

Ben tre modelli della Fontana dei Quattro Fiumi sono comunque esposti in questa mostra, con varianti anche importanti rispetto a quella che sarebbe poi stata la realizzazione definitiva. In legno e terracotta su base in ardesia proveniente dalla collezione privata degli eredi Bernini; in bronzo dorato dal Palacio Real di Madrid; in legno intagliato e policromato e terracotta dall’Accademia di Belle Arti di Bologna. L’ultima sezione, “Il mestiere di scultore: i bozzetti” pone infatti l’attenzione sulla prassi concreta dello scolpire, con un’esposizione diacronica di opere risalenti a più momenti della carriera di Gian Lorenzo. Il difficile passaggio dal disegno alla realizzazione scultorea e architettonica è anche fotografato nella penultima sezione, col disegno e la terracotta preparatori per il monumento equestre al Re Sole Luigi XIV. La terza sezione è poi quella sui “Gruppi Borghesiani”. Quelle sculture monumentali di Bernini che sono conservate all’interno del Museo. A partire da quell’“Enea e Anchise” che in realtà anch’esso attraverso la metafora dell’eroe troiano col padre in braccio allude al rapporto tra Gian Lorenzo e Pietro, ma dialoga anche con il dipinto di analogo soggetto di Federico Barocci. Di solito è esposto al primo piano, ma così si ripristina quel rapporto pittura-scultura che costituì uno dei primi obiettivi critici di Bernini. Questo è comunque il percorso espositivo permanente della Galleria, sino all’ultimo gruppo borghesiano di “Apollo e Dafne”. Che in epoca di polemiche sulle molestie sessuali porrebbe anch’esso acquisire una certa attualità, con la raffigurazione del mito della ninfa che per sfuggire a Apollo si trasformò addirittura in albero. Ma lì vicino c’è anche “Il ratto di Proserpina”: pure fatto da Bernini nel 1622, ed in cui invece la molestata accetta la rude corte del molestatore, fino a divenire al suo fianco la Regina degli Inferi.

 

Quinta sezione, sui Busti: uno dei generi più frequentati da Bernini, anche perché all’epoca rispondeva a una forma di rappresentazione e propaganda del potere comparabile a quel che per i leader di oggi sono i poster con le foto. E sesta è la già citata sezione sulla Pittura. Insomma, tra l’architetto, il pittore, il restauratore, il fontaniere, lo scultore e l’attaccabrighe il multiforme ingegno barocco di Gian Lorenzo Bernini c’è quasi tutto. Non tutto, perché fu anche commediografo: e un commediografo con un talento per gli effetti speciali che qualche secolo dopo avrebbe potuto farne forse un maestro del cinema catastrofico. In “De’ due teatri”, ad esempio, al pubblico era data l’impressione che esistesse una seconda platea immaginaria oltre a quella reale, con attori recanti maschere che riproducevano i lineamenti degli spettatori e un prologo, recitato da due attori che si rivolgevano l’uno verso la platea inesistente, e l’altro verso quella reale. E anche qui potremmo usare l’aggettivo “borgesiano: nel senso però di Jorge Luis Borges, piuttosto che dei Borghese. In “L’incendio” al transito di un carro carnevalesco divampavano spaventose fiamme che sembravano divorare ogni cosa. In “L’inondazione del Tevere” gli spettatori furono effettivamente investiti da una valanga d’acqua, però subito a sorpresa inghiottita da una cataratta: “Senz’altro danno degli uditori, che il timore”, avrebbe ricordato il figlio di Bernini Domenico. Chissà che avrebbe inventato, se avesse avuto a disposizione il 3D e il sensurround…

 

E c’è pure “La fontana di Trevi”: commedia che riprende l’opera architettonica, e che è a sua volta ripresa dalla canzone con cui possiamo terminare. “Mentre l’inglesina s’allontana / un ragazzinetto s’avvicina / va nella fontana pesca er soldo e se ne va!”.

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