Sylvia Plath

Così Sylvia Plath tentò di opporsi al dolore di vivere

Sandra Petrignani

Poesia e frivolezza. In un saggio di Leonetta Bentivoglio le risonanze con l’arte di Pina Bausch

S’intitola Die Klage der Kaiserin (Il lamento dell’imperatrice) l’unico lungometraggio cinematografico realizzato da Pina Bausch: era il 1990. Oggi Leonetta Bentivoglio, scrivendo su Sylvia Plath, riprende quel titolo con un leggero slittamento e dà a un suo limpido saggio, appena uscito per le edizioni Clichy, il titolo Il lamento della regina (che è però il titolo esatto di una poesia di Plath del ’56). Si legge nel suo testo: “Ci si consenta un accostamento affettivo e forse arbitrario fra Pina e Sylvia, due artiste che hanno operato nell’ambito di linguaggi diversi e in epoche distanti fra loro”. Vado dunque subito a verificare quanto ci sia di “arbitrario” nell’accostamento, guardando in rete Die Klage, di cui non sapevo nulla, e sprofondando ancora una volta nell’incanto che Bausch metteva in ogni sua creazione. Più che un film è “un’opera” nel senso che si dà alle produzioni video dell’arte contemporanea, ma un video che dura un’ora e un quarto fatto d’immagini, situazioni, idee drammatiche, movimento, colori, musica.

    

 

 

L’imperatrice è una coniglietta in tacchi alti, guêpière, guanti e calze nere che arranca lungo una collina di fango e detriti; è una sfinge declassata; è una giardiniera in abito da sera che cerca disperatamente di liberare il sottobosco dalle foglie cadute; è un’Ofelia dal sesso incerto incarcerata in una bara di ghiaccio e d’acqua; è due gambe chiare bellissime che ballano il tango imprigionate nel nero; è il trans che percorre ossessivamente lo stesso perimetro; è una ragazza nuda, immobile e bendata; è la suonatrice di bongos immaginari sotto la pioggia; è lo sforzo del singolo sulle cui spalle viene caricato un peso eccessivo; è la bellezza artefatta e deperibile e il pianto che scioglie il trucco; è il gioco d’equilibrismo di una donna e di un uomo che camminano l’una sulle spalle dell’altro; è l’umanità anonima in marcia con bambini che piangono fra alberi numerati in modo tragicamente evocativo; è il dolore e la miseria dell’essere, che le esplosioni improvvise di energia corporea, felicità, allegria non bilanciano mai. Ed è un insieme effettivamente molto appropriato al mondo di Plath, alla storia della sua vita, alla sua opera. Basta mettere una parrucca bionda alla coniglietta, che nel finale del film arriva in cima al dirupo, trova un’interminabile strada bianca e corre forsennata verso chissà quale meta indicibile, per trovare in Bausch una sintesi (che non sembra involontaria nemmeno un po’) del destino di Sylvia.

    

La passione di Leonetta Bentivoglio per Pina Bausch viene da lontano, dalla sua esperienza di critico della danza e dai libri che ha realizzato su di lei e sul suo teatro. Probabilmente anche la passione per la poetessa americana, regina che non fece in tempo a farsi imperatrice perché morta troppo giovane – a trent’anni, l’11 febbraio del ‘63 – è un amore coltivato nel tempo, che Leonetta avrà scoperto ricco di risonanze rispetto alla voce artistica della danzatrice. Lo dimostra la secca competenza di questo Lamento articolato in brevi capitoli: Sesso, Morte, Strega, Animali… che, mentre restituisce Plath a Plath, alla sua grandezza unica, riesce a essere insieme costante evocazione del mondo di Pina Bausch e del suo spiegamento simbolico, segnalando quanto in comune – proprio attraverso i loro riferimenti simbolici – abbiano le due artiste.

     

Bentivoglio è anche attenta a sottrarre Sylvia Plath al mito femminista, ormai consumato, della suicida esemplare. Esemplare di una struttura femminile compressa fra fantasmi materni, dover essere, seduzione a oltranza, genio represso. Non che questa interpretazione possa venire smentita, ma “Sylvia è stata ‘troppo’ un vessillo delle donne, trasformandosi suo malgrado in uno schema” osserva Bentivoglio. Nulla di schematico resta nel suo Lamento della regina, nulla di patetico nonostante l’addensarsi di tragedia nella vita della poetessa e purtroppo anche oltre (il figlio Nicholas Hughes, zoologo, muore nel 2009 impiccandosi in Alaska, dove studiava i salmoni, “riproponendo ancora, dopo molti anni dal suicidio della madre, il marchio di un’eredità sanguinaria”). Non sarebbe dunque giusto né possibile sottovalutare l’epilogo che la poetessa volle dare alla propria vita, anche perché fu nei suoi ultimi giorni che compose in una concentrazione fitta e incandescente i suoi versi più alti.

  

Ma: “I meccanismi che portano una persona a togliersi la vita sono per lo meno complessi e difficili quanto quelli tramite i quali continua a vivere” si legge in quel classico del suicidio che è Il dio selvaggio di Al Alvarez, ora meritoriamente riproposto dall’editore Odoya con il sottotitolo Suicidio e letteratura dopo lunghi anni di oblio, da quando Rizzoli nel 1975 lo aveva tradotto conquistando neo-romantiche platee di post-sessantottini innamorati della morte, di Sylvia Plath (soprattutto le donne) e di Cesare Pavese (soprattutto i maschi). “Dopo di noi il Dio Selvaggio” scriveva Yeats parlando di Tezcatlipoca (Specchio Fumante), la divinità atzeca della notte, nemica di tutti e di tutto, portatrice di guerra anche contro se stessi, alla quale Alvarez s’ispira nel titolo.

 

E sono i meccanismi per vivere, oltre quelli per morire, che Leonetta Bentivoglio indaga nel suo testo. Meccanismi che nel caso di Plath si mettono in moto innazitutto tramite la poesia, intesa come destino, come sbocco per una personalità scorticata, ipersensibile. Nata nel ‘32 (a Boston) aveva visto ancora bambina i primi documentari sui campi di sterminio. Nel ‘57 elabora così le immagini sempre vive in lei di corpi scheletrici: “Sono sempre con noi, i tipi sottili / poveri di dimensioni come le figure grigie / sullo schermo del cinema. Non sono veri, / diciamo: / fu solo in un film, fu solo in una guerra / che riempiva di titoli paurosi i giornali quando / eravamo bambini, che per la fame / dimagrirono tanto e non rimpolparono più / le membra sparute benché la pace / arrotondasse il ventre dei topi / sotto la più misera mensa”. E il marito Ted Hughes raccontò poi – si legge nel Lamento della regina – “che le sue reazioni ai patimenti degli animali, e persino alla profanazione delle piante, erano violentissime e strazianti. La sua compassione ‘fusionale’ rasentava la follia. Spesso non è distinguibile il confine fra una sofferenza provocata da un eccesso del sentire e una patologia psichiatrica”.

  

Che cosa, dunque, oppone alla sofferenza la giovane Plath per sopravvivere, oltre naturalmente la poesia, che però è un’elaborazione del dolore: suo esame e potenziamento? Oppone frivolezza. Capelli biondo brillante, sorriso da finta ingenua, sguardo ammiccante. Eccola l’altra Plath, quella che vuole essere come tutte, ma più brava e più bella, quella che sposerà il più talentoso dei suoi compagni di college in Inghilterra, quella che avrà – comme il faut – due bambini, una femmina e un maschio. Quella abitata da un mito della perfezione che la perderà. “Io abito/ l’immagine di cera di me stessa, un corpo di bambola. / Comincia qui la malattia: sono un bersaglio per streghe. / Solo il diavolo può divorare il diavolo”.

  

Sosteneva Pina Bausch: “Bisogna sempre togliere il vento alle vele”, una lezione che Plath non ha mai imparato. La sua indole era invece di soffiare nelle vele fino allo spasimo, di tendere il tessuto fino a spezzarne la trama, di esagerare. Come quando scrive alla madre lettere “sempre ridondanti di affetto e riconoscenza” (osserva Bentivoglio) mentre nel diario confessa: “Nel profondo delle mie emozioni penso a lei come a una nemica…Pensavo come sarebbe stato bello ucciderla, stringere tra le mani la sua gola tutta pelle e vene” (dicembre 1958). Quando conosce Ted, lo morde “forte e a lungo su una guancia, e quando siamo usciti dalla stanza, gli colava il sangue sulla faccia” si legge nei Diari, ma potrebbe bastare l’immagine divinizzata che ne dà nell’Ode a Ted: “Dove preme lo stivale del mio uomo / spuntano verdi germogli d’avena”.

  

Alvarez conobbe Sylvia e Ted nella primavera del 1960. Nel suo libro li ricorda poveri e affannati che avevano una sola macchina da scrivere e vi si alternavano, come si alternavano nell’accudire la primogenita Frieda appena nata (diventerà una pittrice, poeta e illustratrice per l’infanzia). Sylvia aveva smesso di ossigenarsi i capelli e li teneva castani, legati a coda di cavallo o avvoltolati in una crocchia. “Dal suo comportamento con gli altri era assente qualsiasi traccia di disperazione e dell’implacabile spirito distruttivo delle poesie” dice l’autore del Dio selvaggio; dava l’impressione di essere “brillante ed energica”. Alvarez aveva continuato a frequentarla anche quando Ted l’aveva lasciata per Assia Wevill, una bellissima bruna dagli occhi grigi che sarà ossessionata dal confronto con la poetessa e finirà per suicidarsi lei pure, a quarantadue anni, temendo vecchiaia e perdita del fascino, temendo fantasmi e ombre ingovernabili e superando tragicamente, almeno nel suicidio, la supposta rivale: Assia sopprimerà coi barbiturici non solo se stessa, ma anche la figlioletta di quattro anni, Shura (nomignolo per Alexandra), avuta da Ted. Siamo nel 1969. E, si chiede Bentivoglio, “non si capisce come [Hughes] abbia potuto galleggiare in tante catastrofi continuando a scrivere, a lavorare e a firmare le curatele dei testi di Sylvia”.

      

Sylvia aveva chiamato Alvarez la vigilia di Natale del ‘62: si era sistemata con i bambini in un nuovo appartamento a Londra, un appartamento freddissimo in un inverno gelido. Gli chiedeva di andarla a trovare. Lui andò, ma poi doveva lasciarla perché aveva già un invito a cena. “Sapevo di piantarla in asso in maniera in un certo senso definitiva e imperdonabile. E sapevo che lei lo sapeva. Fu l’ultima volta che la vidi viva”. Sylvia si sarebbe uccisa nemmeno due mesi dopo. “Io resto immobile. / Il gelo fa un fiore, / la rugiada fa una stella. / La campana a morto, / la campana a morto. / Qualcuno è spacciato”. Eppure Alvarez si dice convinto che “questa volta lei non aveva intenzione di morire”. Che voleva lanciare un richiamo, ma sperava di essere salvata. La sua fine fu la conseguenza – dice – di “una catena di incidenti, coincidenze e sbagli che si concluse con la morte… Tutto cospirò contro di lei… La malattia, la solitudine, la depressione, il freddo, uniti alle esigenze di due figli”.

   

Il racconto dettagliato degli ultimi giorni di vita di Sylvia Plath come si legge nelle tante biografie a lei dedicate (in Italia: Sylvia di Stefania Caracci, edizioni e/o), è un’impressionante concatenazione di eventi sfavorevoli, sfortunati malintesi, segnali mal interpretati, depressione e solitudine. E la scena finale è una storia raccontata tante volte, troppe volte: lei che prepara la colazione ai bambini ancora addormentati al piano di sopra, sigilla porte e finestre, apre il forno, lo satura di gas e c’infila la testa dentro. “La morte è un approdo fondamentale per Sylvia, che la raggiunge attraverso un rito strutturato” commenta Leonetta Bentivoglio, in disaccordo con Alvarez. La determinazione con cui Plath parla della morte nelle ultime poesie, quelle che furono raccolte in Ariel, sembra darle ragione: sono lucida descrizione di un passo programmato e inevitabile. Anche la biografa Anne Stevenson ne è convinta: in Bitter Fame. A Life of Sylvia Plath, ha raccolto la testimonianza del medico che seguiva la poetessa, John Horder: “L’attenzione con cui preparò la cucina parla chiaro. Ho sempre pensato che il suo fosse un tentativo molto determinato di porre fine alla propria vita. Ha scelto il momento in cui nessuno poteva restare con lei, l’ora in cui i suicidi sono più frequenti, a tarda notte. Era profondamente depressa, malata, ‘fuori di testa’, qualsiasi spiegazione psicologica sarebbe inadeguata. Era soggetta a continue variazione dell’umore, così estreme che un medico non può vederle che in termini di chimica cerebrale. Questo non per sminuire l’importanza di ragioni concomitanti come la fine del matrimonio, l’esaurimento dopo un periodo di straordinaria attività artistica, le recenti sindromi influenzali e la difficoltà di sentirsi all’altezza del compito di madre. La spiegazione complessiva deve tener conto di tutti questi fattori e di altri magari. Ma la compulsione irrazionale di darsi la morte mi fa pensare che il corpo avesse preso il sopravvento sulla mente”.

  

Una mente, però, che non aveva mai smesso di guidare il corpo verso l’esito stabilito. Dice una famosissima poesia del ’61, Sono verticale, “ma preferirei essere orizzontale”. Una poesia che si conclude così: “L’essere distesa mi è più naturale. / Allora c’è aperto colloquio fra il cielo e me / e sarò utile quando sarò distesa per sempre: / forse allora gli alberi mi toccheranno e i fiori avranno / tempo per me”.

  

E un verso dell’ultima poesia, Limite, del 5 febbraio ’63, dice: “Siamo arrivati fin qui, è finita”.

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