Piccole umanità e miserie in un reparto d'ospedale
“La linea verticale” di Mattia Torre è un viaggio tra paradossi tragicomici, tra amore e speranza dove meno ce li aspettiamo
Nella canzone di Lucio Dalla sono Anna e Marco, qui, invece, nello splendido “La linea verticale” (Baldini&Castoldi) di Mattia Torre, scrittore, autore e sceneggiatore tra i più bravi della sua generazione, sono Elena e Luigi. Lei incinta, bella come sono belle le madri; lui malato, stanco, costretto in ospedale da un tumore. La storia che Torre racconta è, per forza di cose, una storia d’amore; quindi partire da loro due, Elena e Luigi, ha senso. Ma è anche una storia di crescita, intesa come scoperta di sé stessi, e di rinascita.
“La linea verticale” è ambientato in un ospedale, i protagonisti sono tutti malati, infermieri e dottori. Giovani, vecchi e meno vecchi – le declinazioni si fermano qui. Luigi è il più giovane. Luigi è la promessa del reparto (come un nuovo acquisto della primavera, sissignore). È un tipo simpatico ma, come gli dice subito un’infermiera, “rompicoglioni”. Ha quarant’anni, una figlia e un altro bambino in arrivo. Elena è la sua Beatrice, per dirla alla Dante. E anche la sua ancora di salvezza, perché lo tiene in contatto con il mondo esterno e con la vita vera (una malattia non ferma i treni, gli aerei; non ferma il mutuo, le disgrazie, le tasse e il lavoro; una malattia peggiora le cose, non le cancella). In ospedale si mangia (male), si guarda la televisione (sbirciando quella del vicino) e ci si diletta, letteralmente, nel diagnosticare ad altri mali e sintomi (è una cosa che tutti, dice Torre, finiscono per fare prima o poi).
La scelta di un microcosmo così piccolo e contenuto è funzionale, ovviamente, ai fini della storia; ma è anche uno splendido modo per raccogliere piccole umanità, piccole miserie, e metterle insieme. Riassumere il mondo con un medico (piacione), un’infermiera che ascolta il pop italiano; un immigrato (che però è benestante, ha un negozio d’antiquariato e vive bene la sua vita) e un prete che, da confessore dei morenti, sicuro di sé stesso, finisce anche lui ricoverato e in bilico.
“La linea verticale” è un libro imperdibile per tante ragioni. In parte, per tutto quello che abbiamo già detto (la storia, l’ambientazione, il protagonista) che, volendo, potremmo riassumere con “contenuto”. E in parte per Torre, per il suo stile, per il suo modo di fare umorismo, comicità, ironia. Perché in “La linea verticale”, innanzitutto, si ride. Ma si ride come si rideva una volta delle commedie all’italiana: è l’agrodolce della vita che ci fa sorridere; è l’assurdità di certe situazioni che ci fa divertire. È la tragicomicità di Luigi, dei suoi compagni di stanza, di Marcello che, proprietario di una trattoria, sente il polso a chiunque, consiglia esami, dà spiegazioni, e che minaccia il suicidio quando gli dicono che deve diventare vegano.
“La linea verticale” è piena di paradossi così, paradossi divertenti, paradossi in cui ritrovarsi, perdersi, e ritrovarsi ancora. E tutti raccontati ferocemente, puntualmente e riccamente da Torre. Il suo stile, il suo modo cioè di mettere ordine tra le parole, di incasellarle una dietro all’altra, è un valore aggiunto. È intrattenimento puro (e non è un caso se “La linea verticale” diventerà anche una serie tv, su Rai3). Il chirurgo che diventa sinonimo di efficienza e speranza; il russo che, da medico, in Italia viene declassato a infermiere (“perché funziona così”); l’infermiera filippina che si chiama Felicia e che, però, viene chiamata da tutti Filippa; il medico che ti dice di non mangiare e bere prima di una Tac, che si sbaglia (“basta non mangiare”) e che quando glielo fai notare ti dice: ah, pensavo fosse così; sa, qualche anno fa l’ha fatta anche mia moglie. Ogni più piccolo dettaglio è il sinonimo di un aspetto più grande, più vero e più universale. Ma al di là di tutto questo, dei sofismi e delle letture forzate ed estremizzate, “La linea verticale” resta soprattutto un libro – fermatevi, inspirate, espirate – che si fa leggere. Sorpresa, non è vero?