I colori di una rivoluzione
Amavano esplorare il desiderio. La loro arte incarnava in un paesaggio onirico la ribellione alle convenzioni culturali e sociali. Dadaisti e surrealisti in una grande mostra a Bologna
Una sigla fin troppo abusata – “D & S” – ma necessaria per indicare il Dadaismo e il Surrealismo, i due movimenti dell’avanguardia storica più significativi dei nostri tempi, una vera e propria sfida – in entrambi i casi – a quella tradizione che passava attraverso l’utilizzo di strategie e di materiali destinati a rivoluzionare il linguaggio artistico, creando un’eredità duratura che avrebbe trasformato per sempre la storia dell’arte. Entrambi capaci di non limitarsi a una rivolta visiva – ma, piuttosto, a sostenere una rivoluzione culturale e d’abolizione della contraddizione tra teoria e pratica – suggerivano una nuova filosofia della vita che confutava, tra l’altro, anche il senso della sperimentazione puramente formale. L’artista era infatti “ingabbiato” in un ruolo privilegiato dalla sua competenza, era vittima consapevole della divisione del lavoro e – di tutto questo – doveva necessariamente liberarsi. Dadaismo e Surrealismo sono stati la rottura responsabile e risolutiva di una tradizione accademica che imperversava e, pertanto insieme, ebbero lo scopo di creare un rinnovamento radicale nell’arte. In questi giorni, la città di Bologna celebra quei periodi di creatività geniale e straordinaria nel suo barocco Palazzo Albergati in via Saragozza con “I Rivoluzionari del ’900”. La mostra, imponente e imperdibile (potete visitarla fino all’11 febbraio 2018) raccoglie circa duecento opere provenienti dalle collezioni dell’Israel Museum di Gerusalemme, che per l’occasione ha svuotato oltre mille metri quadri del proprio percorso espositivo. Da oltre cinquant’anni, infatti, il museo israeliano è riuscito a formare la sua ricca collezione grazie anche al docente, scrittore e poeta milanese Arturo Schwarz, che ha donato la sua vasta collezione di arte Dada, surrealista e pre-surrealista comprendente più di settecento opere che costituiscono la maggior parte della collezione e della selezione di quelle presenti in mostra.
E’ passato un secolo dagli esordi del movimento Dada nel 1916 e del Surrealismo nel 1924 e molto è cambiato. Oggi accostamenti “meravigliosi”, ready made, fotomontaggio, metamorfosi e paesaggi onirici sono scontati, in arte e non solo, ma all’epoca gli artisti che per primi hanno inventato tecniche, costruito ideologie, scoperto e applicato la psicoanalisi all’arte e alla vita non solo hanno sfidato e rinnegato la tradizione, ma hanno introdotto strategie e materiali innovativi destinati a trasformare il vocabolario dell’arte.
Circa duecento opere dalle collezioni dell’Israel Museum di Gerusalemme, molte donate dal milanese Arturo Schwarz
Il Dadaismo – dalla parola senza significato Dada, scelta per sottolineare ancora di più il carattere giocoso oltre che serio del movimento – nacque in Svizzera, a Zurigo, nel 1916, da un gruppo d’intellettuali europei (c’erano Hans Arp, Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck e Hans Richter) che vi si rifugiarono per sottrarsi alla Prima guerra mondiale. Proprio lì, al Cabaret Voltaire, fondato dal regista teatrale Hugo Ball, tra mostre d’arte russa e francese, danze, letture poetiche ed esecuzioni di musiche africane, passavano serate indimenticabili con l’intento di meravigliare, provocare e creare un modo nuovo e originale di proporre l’arte, un po’ come i futuristi in Italia, ma a differenza di questi ultimi non furono mai favorevoli alla guerra. Rifiutavano ogni atteggiamento razionalistico e quel continuo rigetto era ovviamente provocatorio e finalizzato a demolire le convenzioni borghesi che ruotavano intorno all’arte.
Nell’esporre un oggetto semplice e banale come un pettine o uno scolabottiglie a cui non apportavano nessuna modifica, gli artisti dada s’interrogavano sull’immediata trasformazione di quell’oggetto stesso nel momento della sua entrata in un museo. “L’atto creativo era per loro rappresentato proprio dall’idea che c’era dietro l’opera, minimizzandone così il valore come anche lo sforzo e il talento stesso dell’artista”, ha spiegato la curatrice Adina Kamien-Kazhdan, curatrice del settore arte moderna all¿Israel Museum. In Germania e a Parigi il movimento ebbe subito presa, ma rimase ben circoscritto e delimitato in area europea, tranne particolari eccezioni rappresentate dagli incontri tra il pittore francese Marcel Duchamp, il pittore e fotografo americano Man Ray, il pittore franco-spagnolo Francis Picabia e il gallerista americano Alfred Stieglitz. Ebbe vita breve fino a scomparire tra il 1922 e il 1924, quando ebbe origine il Surrealismo il cui padre teorico fu il poeta André Breton, come viene ricordato nella ricca mostra bolognese, prodotta e organizzata da Arthemisia in collaborazione con il già citato museo israeliano. Breton, influenzato molto dalle teorie dell’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud (risalenti al 1900), arrivò alla conclusione di non accettare che il sogno e l’inconscio avessero avuto così poco spazio nella civiltà moderna e – pertanto – pensò di fondare un nuovo movimento artistico e letterario in cui il sogno e l’inconscio avessero un ruolo fondamentale. Fu lui a lanciare il movimento con il Manifesto del Surrealismo nel 1924 (che a sua volta affondava le proprie radici nelle idee del marchese de Sade), in cui si parlò per la prima volta di “automatismo psichico”, quel processo in cui l’inconscio – quella parte di noi che emerge durante i sogni – affiora anche quando siamo svegli permettendoci di associare parole libere, pensieri e immagini senza freni inibitori e scopi preordinati. Da qui il pensiero (e l’oggetto, che fu presentato nel 1931 da Salvador Dalí in un articolo intitolato L’objet surréaliste, ma le sue origini risalgono a molto prima) si manifestò spesso come ribellione alle convenzioni culturali e sociali, e venne concepito come una trasformazione totale della vita, attraverso la libertà di costumi, la poesia e l’amore.
Al Cabaret Voltaire passavano serate indimenticabili con l’intento di meravigliare, provocare e creare un modo nuovo di proporre l’arte
C’era in tutti la voglia di scatenare una rivoluzione totale, dando a quel pensiero e a quell’oggetto un’identità diversa, dopo averli riclassificati mediante l’esercizio della scelta. Da qui il pensiero surrealista – il più longevo tra le avanguardie storiche – che si manifestò spesso come ribellione alle convenzioni culturali e sociali, e venne concepito come una trasformazione totale della vita, attraverso la libertà di costumi, la poesia e l’amore, diffondendosi capillarmente in tutto il mondo. Come Dada, il surrealismo non fu un movimento principalmente artistico e potrete rendervene conto anche voi visitando questa mostra che da marzo del prossimo anno fino a luglio, sarà allestita al Complesso del Vittoriano di Roma. Suddivisa in cinque sezioni, mette in evidenza il vero valore dei fondatori di questi due movimenti: poeti e scrittori, soprattutto, e non artisti, con le loro considerazioni formali e stilistiche decisamente particolari. Con il surrealismo, ad esempio, “l’accento si spostò dagli aspetti antiartistici o non artistici di varie forme espressive alle loro potenzialità nella proiezione dell’inconscio, usando il caso e l’incontro inaspettato con frammenti di immagini, oggetti trovati e avanzi di materiali del mondo quotidiano” – si legge nel catalogo ragionato pubblicato da Skira con saggi della curatrice e di altri studiosi come Werner Spies e Daws Ades. Emblematici i lavori di Duchamp (in mostra c’è uno dei suoi capolavori, L.H.O.O.Q. - 1919/1964, la sua particolare visione della Mona Lisa), iniziati prima della guerra con la sua ruota della bicicletta da interpretare – assieme ai successivi – come una reazione provocatoria alle reazioni del futurismo e del cubismo, una manifestazione per assurdo di rappresentare il movimento. Un dipinto bidimensionale non si sarebbe mai potuto muovere davvero – viene fatto osservare – ma lui scelse e isolò un oggetto che poteva farlo. I suoi primi ready made erano riflessioni del tutto private, dimostrazioni della difficoltà di definire l’arte in assoluto e questo si ritrova anche nei disegni automatici di Jean Arp e André Masson, come in quelli semiautomatici di Paul Klee e Joan Miró, negli sfregamenti di Max Ernst e nelle foto in bianco e nero di Man Ray che ricorrendo alla solarizzazione, ai fotogrammi e agli effetti casuali, riuscì a realizzare poi opere intrise di mistero e di ambiguità. Con l’utilizzo di una creatività inedita, infatti, i surrealisti hanno esplorato i domini nascosti della mente e provato a riconquistare la libertà di immaginazione cui di solito si ha accesso durante l’infanzia, nei sogni o – a seconda dei casi – persino nella follia.
E’ il 1924 quando il “Manifesto del Surrealismo” di André Breton parla per la prima volta di “automatismo psichico”
Uno come Jean (Hans) Arp ha semplificato le forme della natura riducendole alla loro essenza astratta e le sue opere – troverete, tra le altre, anche L’albero di ciotole del 1947 e il Monumento ombra del 1965 – esprimono e catturano l’energia vitale dell’essere liberando l’arte dalle costrizioni della civiltà moderna. I dipinti di Yves Tanguy, invece, fondono figure animali, vegetali e umane con formazioni rocciose dando vita a paesaggi evanescenti e in qualche maniera sofferenti. Max Ernst, da parte sua, era arrivato invece alla conclusione che l’artista dovesse recuperare un’armonia mistica e spirituale con la natura che si era persa a causa del cristianesimo, del razionalismo occidentale e della tecnologia. Perdersi in quelli di Dalí (troverte, tra gli altri, anche il celebre Surrealist Essay del 1934) è semplicemente meraviglioso. Loro erano così: amavano esplorare il desiderio e lo fecero sempre in vari campi e in vari modi, sfoderando fantasie e paure, senza però dimenticare che lo stesso doveva comunque essere liberato attraverso l’arte, permettendo alla libido di trasformarsi in una forza rivoluzionaria e in un potente strumento di ribellione contro la censura politica e sociale.
Come nei sogni, memoria e spazio viaggiano su binari paralleli, permettendo alla realtà di mescolarsi con l’immaginazione
Amavano le donne? A modo loro, tanto che negli anni successivi, le femministe li odiarono in più di un’occasione. “Ciò che importa è essere padroni di noi stessi, delle donne e dell’amore”, si legge nel Manifeste. Del gentil sesso avevano, dunque, una concezione patriarcale. La donna era vista come fonte di ispirazione, una promessa e un simbolo di potere e a essere assoluto protagonista, nelle loro opere, era il corpo femminile in tutte le sue forme, sempre idealizzato, mistificato, distrutto o frammentato, come fece Hans Bellmer, uno dei primi ad analizzare gli aspetti più oscuri del desiderio. Nelle foto di Man Ray, il corpo la fa da protagonista e la sua eredità è evidente nel lavoro di Manuel Alvarez Bravo, mentre Duchamp ha esplorato l’impulso erotico con il suo alter ego femminile Rrose Sélavy, esaminando i confini di genere e reinventandosi come oggetto del desiderio. Il sogno è il loro soggetto chiave e i loro paesaggi onirici evocano una sensazione di mistero con spazio e tempo che vanno per conto loro. Giorgio De Chirico, (splendido Il sognatore poetico, del 1937), creò ad esempio paesaggi urbani senza tempo capaci di trasmettere un senso di inquietudine, mentre René Magritte, con le sue invenzioni poetiche (non perdete, tra le altre, Il Castello sui Pirenei, 1959, opera-simbolo della mostra) regala immagini ricche di complesse associazioni mentre, ma sono le sue metafore visive a riflettere una certa familiarità con temi drammatici e sconvolgenti. Come nei sogni, memoria e spazio viaggiano su binari paralleli, permettendo alla realtà di mescolarsi con l’immaginazione e le stesse immagini oniriche, fino ad arrivare in un territorio libero da giudizio e ragione. Il brutto, come al solito, è svegliarsi.