Decifrare un sognatore è percorrere a ritroso un processo di invenzione artistica
Il persistente brusio dell'ultimo romanzo di Stefano Massini
Racconta un sogno e perderai un lettore, diceva Henry James. Ma se racconti il sognatore?
“Basta una frase fuori posto e finisci nella lista degli isterici”, sentenzia il sardonico Ludwig R., il più acuto tra quelli raccontati da Stefano Massini – o meglio, dal Sigmund Freud in cui Stefano Massini si finge nel nuovo L’interpretatore dei sogni (Mondadori, 345 pp., 19 euro€) – regalandoci un’osservazione divertente ma anche utilissima per comprendere questo romanzo che, a lettura terminata, persiste nella mente in forma di suono: precisamente, quello di un ingranaggio al lavoro. Non personaggi, insomma. Non racconti. Ma immagini oniriche, con sottofondo di ronzio. Quanto alle immagini, che nel romanzo tripudiano (almeno quanto i verbi sostantivati, ahi ahi), era inevitabile: i sogni ne sono composti al punto che, come si constata, sarebbe più sensato dire “ho visto un sogno” anziché “ho fatto un sogno”.
Quanto al suono, l’esito era meno prevedibile. Ma il romanzo è proprio questo: un “falso” documento che ricalca, nei procedimenti, quello grazie al quale il nostro Sigmund, nella sua Die Traumdeutung, decifrò per la prima volta un proprio sogno (il ventesimo capitolo di Massini ne è il “prequel dialettico”, e ricrea la conversazione che l’avrebbe generato), fino a farsi, pagina dopo pagina, diario della conquista di un metodo. Anzi, del metodo per antonomasia, che interpretò la mente che sogna come un sistema abissale e complessivo, fatto di evocazione di simboli e integrazione di significati in cui il particolare ha valore solo se rapportato al generale e il dettaglio solo se correlato all’insieme: il sogno come un gergo che va rivelato a un alfabeto.
Trecento e rotte pagine, e nella testa del lettore rimane il brusio persistente di un sistema che lavora alla ridefinizione incessante di se stesso, questo rotore sferragliante del ragionamento, la sibilante unità motrice della catena di montaggio intuitiva e cognitiva dell’uomo che arrivò a psicanalizzare perfino Leonardo da Vinci. “Lo scrigno può essere scardinato solo a forza di tentare”, annota a un certo punto Freud, che tenta, ritenta e scassina, alla fine ebbe ragione della materia più riottosa. Ma riottosi furono anche i sognatori: gli analizzati opponevano strenua resistenza, sia all’analisi, sia all’analizzatore. Così, mentre pagina dopo pagina va in scena il teatro di una collettiva e aspra diffidenza, emerge anche il merito principale del romanzo: la sua impostazione, che rappresenta Freud come un multiforme e a tratti spregiudicato issatore di verità sepolte, metà maieuta e metà energumeno, Prometeo scatenato alle prese col sogno che, per definizione (la sua), è sostanza che sfugge, che non soggiace e non ragiona, che non nega mai e afferma sempre, bambino analfabeta che urla desideri e si costituisce di ciò che non sappiamo di sapere, perennemente in lotta contro qualcosa di tirannico dentro di noi. L’interpretatore dei sogni (romanzo di enunciazioni incarnate più che di veri e propri personaggi, qui sta in fondo il suo limite) è la descrizione di un burrone mentre un uomo lo risale grazie alle funi di un criterio e di materiali simbolici che prendono forma fino a conquistare una formulazione. Implacabili le conclusioni: siamo ostaggi di fobie che rifiutiamo di chiamare con il loro nome, confondiamo il rifiuto del pollo con il rifiuto delle botte necessarie a sputarlo per non soffocare, siamo involucri con crepe che ostentano fierezza.
Ma di cosa parliamo davvero quando, in un sogno, parliamo di qualcosa? Un uomo che sogna – ci dice questa storia – è un uomo che, attraverso i mandarini in Cina, parla della Russia. Ed è soprattutto alla luce di questo nesso che il libro regala una scintillante meta-pepita: decifrare un sognatore (attribuire significati a dei simboli) è come percorrere a ritroso un processo di invenzione artistica (attribuire simboli a dei significati); chiave di lettura, questa, che non deve sorprendere: Massini ha più volte dichiarato di riferirsi esplicitamente al testo freudiano quale manuale di organizzazione drammaturgica. E di ricognizione. Perché costantemente, dentro di noi, “si muovono consapevolezze inaudite”. Ronzii di verità al lavoro.