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Parole, non fatti. Così politici e intellettuali si interessano al linguaggio

Sergio Garufi

Trump vieta l'uso di "feto" e "transgender" nei documenti sanitari ufficiali. Tra mode ideologiche e complessità dei testi, la lingua è la nostra mappa per comprendere l'universo

“Fatti, non parole” è l’eterna e disattesa promessa dei politici di ogni schieramento. Non a caso, fra i primi provvedimenti che ogni nuovo esecutivo prende appena insediatosi c’è proprio la revisione del lessico corrente nell’amministrazione pubblica. Anni fa Francesco Rutelli indicò, tra le priorità programmatiche dell’Ulivo per le nuove scadenze elettorali, l’abolizione dal dizionario del centro-sinistra di termini quali socialdemocrazia ed egualitarismo, retaggio di un passato imbarazzante di cui ci si voleva disfare come di una prova a carico. Di questi giorni invece è la richiesta che l'amministrazione Trump ha rivolto al CDC (Centers for Disease Control and Prevention), il più importante organo di controllo sulla sanità pubblica americana, di smettere di usare alcune parole nei documenti ufficiali relativi al prossimo bilancio annuale. Nella blacklist compaiono i termini e le espressioni “transessuale”, “feto”, “diversità”, “vulnerabile”, “diritto”, “basato sulle evidenze”, “basato sulla scienza”. Forse è solo questione di mode ideologiche, in fondo anche il lessico si aggiorna e si adegua ai tempi che corrono, con nuovi innesti e mesti accantonamenti. Da vent’anni il discorso è fermo perché più nessuno lo porta avanti, e stessa sorte è toccata a nella misura in cui, espressioni decedute per l’abuso e il sarcasmo che suscitavano. Archiviazioni più attuali riguardano i diminutivi che facevano tanto understatement (attimino, aiutino), probabilmente perché viviamo in tempi massimalisti e preferiamo la frase piena, reboante, in cui un avverbio non si nega a nessuno. Chi è più disposto a rispondere con un semplice sì o no senza premettere assolutamente? E il piuttosto che usato non come gerarchia di preferenza, ma come esposizione di alternative? O il comunque posposto a perché, vero must di questa stagione, al pari della sciarpa col nodo scorsoio e il cappotto corto e stretto?

   

Certi vocaboli sopravvivono solo nei dizionari, sono anziani problematici con cui nessuno vuole più avere a che fare. Valetudinario, ctonio e bustrofedico pretenderebbero cure amorevoli e invece deperiscono tristemente nell’indifferenza generale. Perché abbandonare negli ospizi della paleografia etrusca l’aggettivo “bustrofedico”? Basterebbe prenderlo in affidamento e associarlo all’andatura di un ubriaco, o al trasformismo dei politici, e rifiorirebbe subito. Ma a farlo si rischia l’accusa di snobismo, perché il lessico può essere classista e prevaricatore, come lo stile aulico, il linguaggio accademico, il latino dei preti e degli avvocati.

  

In una memorabile disputa con Manganelli, Moravia accusò il malinconico tapiro di deliberata illeggibilità, al fine di conseguire prestigio presso le masse incolte, irretite e soggiogate da tanta oscurità che scambiavano per garanzia di qualità. Il lessico manganelliano era ricco e immaginifico, attingeva a piene mani alla tradizione barocca, ma la sua posizione marginale ed estranea all’establishment letterario dimostrava l’opposto di ciò che diceva Moravia.

  

Quando le terze pagine stavano dove dicevano di essere, sul Corriere uscì un articolo di Pontiggia il cui provocatorio incipit affermava: “nei primi anni di scuola mi insegnarono che tutte le volte che volevo scrivere il verbo andare, dovevo sostituirlo con recarsi. Ci misi molti anni per capire che era vero il contrario”. Pontiggia era uno strenuo apologeta della trasparenza comunicativa e della chiarezza espressiva. I suoi modelli erano Cesare, che aborriva gli inaudita verba, e Renard col suo stile anoressico che rasentava il silenzio, eppure conosceva l’aureo insegnamento di Paul Valéry, che sosteneva che “chiarezza è niente più che abituale frequentazione di nozioni oscure”.

  

A quel pezzo replicò ironicamente Mariotti con un lungo elenco di verbi desueti che mai avrebbe rimpiazzato con altri più semplici; e infine intervenne in modo apparentemente risolutorio Citati, affermando che è il contesto a determinare il lessico più adatto. La sua riflessione servì a spezzare la mistificante dicotomia del di qua o di là, ma se esistesse un solo modo per descrivere una situazione, allora la lezione degli Esercizi di stile di Queneau si ridurrebbe a un ingegnoso rebus per indovinare il giusto registro da adottare volta per volta.

  

Anch’io credo fermamente nelle discussioni estetiche per gli stessi motivi per cui Talleyrand credeva nella Bibbia (“parce-que je n’y comprends rien“); tuttavia la penso come  René Daumal, per il quale “lo stile è l’impronta di ciò che si è su ciò che si fa”. Qualcosa che fa costitutivamente parte del nostro senso identitario, che è meno frutto di una scelta che un naturale riflesso del modo di essere di ciascuno. Si parla come si mangia insomma, non a caso la massima istituzione in questo campo si chiama Accademia della Crusca. 

   

Anche riguardo alla superstizione della chiarezza, conviene correggere alcuni sillogismi falsi e fuorvianti. Il linguaggio è per sua natura ambiguo e metaforico. È il tentativo di tradurre verbalmente un pensiero o un’immagine che fa grumo e resiste; e che, per essere trasmesso, necessita di vocaboli che si fanno al contempo tramite e schermo. Il segreto non consiste solo nel trovare le parole acconce – per usare un’espressione di Roberto Longhi, che difatti traduceva testi figurativi in testi letterari – perché la chiarezza non sta nei concetti o nelle parole, ma nel loro incontro.

  

Per alcuni, come Derrida, questo incontro non era neppure auspicabile. Ne Il gusto del segreto il francese dice chiaramente: “se la trasparenza dell’intelligibilità fosse assicurata distruggerebbe il testo, mostrerebbe che non ha avvenire alcuno, che non deborda il presente, che si consuma immediatamente; dunque una certa zona di misconoscimento e incomprensione è anche una riserva”. Detto in modo un po’ complicato, il messaggio è: diffidate della semplicità. Quando un’argomentazione è semplice e lineare significa che c’è identità tra esposizione e pensiero, o piuttosto che le complessità sono state occultate, rimosse?

   

La semplicità di un testo si può calcolare. Da tempo Amazon ha inserito le statistiche su molti dei suoi libri in commercio. Queste statistiche mostrano parecchi dati: dal numero totale delle parole, a volte comparato col prezzo (“Infinite Jest è un affare, 39.574 parole a dollaro!”), alla media di parole per frase, fino alla percentuale di vocaboli complessi presenti (cioè di lunghezza superiore alle tre sillabe), tutti elementi che vengono interpretati come indici di leggibilità dell’opera.
Ma la denuncia di questo appiattimento risale addirittura a Gadda, che ne I viaggi la morte scrisse: “le genti sazie ebefatte dimandano con ogni ragione delle buone e intelligibili scritture: legittima cosa, che il fratello attenda dal fratello una parola fraterna. Ma questa prepotenza del voler canonizzare l’uso-Cesira scopre di troppo il desiderio, e quasi l’intento, della Cesira medesima: il desiderio di avere tutti inginocchiati al livello della sua zucca”. E la Cesira era l’ur-casalinga di Voghera, l’ipostasi dell’italiano medio.

   

Erasmo scrisse: “non mi indigno se mi mettono davanti qualcosa che non capisco, ma gioisco che mi si offra l’occasione di imparare”. Questo dovrebbe essere l’atteggiamento di chi si imbatte in una parola difficile o un concetto complesso: una forma di gratitudine. La lingua non è – come postulano i nominalisti – un mero strumento di comunicazione, un arbitrario repertorio di simboli stabiliti per convenzione, bensì una visione del mondo, la mappa dell’universo; e per orientarsi nei suoi meandri a volte serve un trattato di retorica. Il più divertente, anche perché applicato al lessico amoroso, ha otto secoli e lo scrisse Boncompagno da Signa. S’intitola Rota Veneris, e può anche essere letto come un manuale d’amore in forma epistolare. All’autore non preme tanto teorizzare sulla psicologia del sentimento amoroso: piuttosto egli osserva gli amanti e racconta cosa si scrivono e si dicono in privato; perché, come confessa nel finale, “a me sono sempre piaciute più le parole dei fatti”.

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