Una fine del mondo lamentosa

Matteo Marchesini

Rileggere “Imperio” di De Roberto per capire cosa c'è dietro la polemica sulla salma di Vittorio Emanuele terzo

In un periodo di coincidenze esistenziali luminose e sinistre, l’altro giorno me ne sono vista passare sotto gli occhi una politico-letteraria. Ho saputo della polemica sulla salma di Vittorio Emanuele terzo proprio mentre nell’“Imperio” di De Roberto, torso di romanzo parlamentare abbozzato tra Otto e Novecento, rileggevo una profetica invettiva di Consalvo Uzeda contro un re sabaudo. “Noi continueremo a sostenerlo, il giorno del pericolo, e vedrete che egli preparerà i bauli, detterà la sua brava abdicazione, e ci lascerà nel ballo, a difendere un posto vuoto!”, grida lo spregiudicato erede dei viceré, che da deputato peone, in pieno trasformismo depretisiano, prova a scalare i seggi governativi. La battuta nasce dall’impazienza. Stanco di fare anticamera, il principe si chiede se non debba sganciarsi dai vecchi moderati. Dove lo si vede di più? Gli conviene recitare ancora la parte del conservatore, seppure flessibile, o buttarsi “verso la vita”? Di lì a poco, spronato da una contessina Borromeo, tiene al teatro Valle un comizio contro il socialismo: però un comizio cauto, quasi anodino, perché ha paura di esser preso a bersaglio. E infatti mentre rincasa un balordo lo accoltella; ma dalla ferita lieve, con un po’ di commedia, Consalvo spreme il copioso succo pubblicitario che gli frutterà il ministero. A spiarne le pose c’è Federico Ranaldi, che ha percorso la triste parabola di tanti intellettuali di provincia: arrivato da Salerno col cuore gonfio d’ideali e il culto della Destra, è stato presto disilluso dai sepolcri imbiancati di Roma. Già all’inizio nota che le colonne solenni di Montecitorio si rivelano al tatto “legno foderato di cartone”. Tuttavia la capitale è anche una continua lusinga: così Federico cede alle ambizioni, diventa redattore dell’house organ trasformista, e nel frattempo, come Consalvo, impara che la vera politica non si gioca tra le facce feroci dell’aula ma nei pourparler cordiali, nelle maldicenze ridanciane dei salotti. Dopo il Valle, però, la sua nausea trabocca. Tornato dai genitori, fantastica su future sette di “biofobi” e “geoclasti” destinati ad annientare il pianeta, coltivando un pessimismo cosmico che la brusca risoluzione per le nozze non può dissolvere più di quanto l’istinto vitale possa contraddire le lucide conclusioni del pensiero.

 

In realtà quanto a coincidenze, o meglio associazioni spontanee, leggendo “L’Imperio” si ha l’imbarazzo della scelta: il partito della nazione, le intese al bordello, le scene weinsteiniane, le forze nuove che il ceto dirigente non sa se censurare o blandire… Ma di fronte al nobile senza scrupoli e al borghese dolente, il mio primo riflesso è stato quello d’immaginare per i due una situazione quasi rovesciata. Oggi i giornalisti ignorano la frivolezza umanistica da gazzettieri balzachiani, esibita nell’“Imperio” mentre coprono di lazzi le istituzioni che parassitano; e i politici non sbagliano più le citazioni classiche ma la sintassi, non declinano i sapidi regionalismi postunitari ma pronunciano bestialità up to date mescolando sgangherati residui dialettali a un inglese altrettanto improbabile. Né si può dire che i giovani leader approdino a Roma da idealisti: spesso già al liceo hanno modi da manager, coach, avvocati o speculatori. Eppure la loro spietatezza e il loro élan sbruffone appaiono quasi ingenui, se avvicinati al cinismo con cui li accoglie l’ex aristocrazia giornalistica.

 

Basta poco perché i parvenu affondino davanti a cerimonieri dei media che si fingono puri osservatori o watchdog senza potere, e che dopo aver montato oltre ogni misura la panna di un caso aprono le braccia giudicandone i protagonisti compromessi perché “al di là dei fatti” l’opinione pubblica strepita, e l’opportunità, signori, l’opportunità… Ormai, coi rispettivi protettori finanziari, questi campioni del calcio d’asino hanno dissipato gli equivoci: alle trasmissioni partecipano da soli, essendo i politici una decorazione superflua. Forse però i due fuochi dell’“Imperio” sono semplicemente divenuti un unico personaggio, che ci prepara a una fine del mondo non leopardiana ma eliotiana, non terroristica ma lamentosa. Congedandosi dai “Viceré” per entrare nell’“Imperio”, il neoeletto Consalvo garantiva a una zia borbonica che “la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa”, e sosteneva che “Quando c’erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio va in Parlamento (…) Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai re; ora viene dal popolo… La differenza è più di nome che di fatto... Certo, dipendere dalla canaglia non è piacevole; ma neppure molti di quei sovrani erano stinchi di santo”. Abusiamo fin troppo di storia e letteratura per rimestare pittorescamente le magagne nazionali; ma qui è forte la tentazione di sostituire re o vice con partitocrazia, e popolo o parlamento con movimenti antisistema. E nel nostro vicereame, retto da un sovrano globale e invisibile, il discorso del principe si addice più alle starlette dei palinsesti o agli editorialisti blasé che ai trasformisti di partiti ridotti allo stato gassoso.

Di più su questi argomenti: