Così smarmellano la Carmen di Bizet in omaggio al femminicidio percepito
Don José diventa un poliziotto violento, che viene ammazzato dalla protagonista per legittima difesa. Il Maggio Fiorentino rivisita la “Carmen” in salsa politicamente corretta. Ahinoi, violentare l’Opera non è perseguibile
Siamo negli anni Ottanta, in un campo rom, e non più nella Spagna dell’Ottocento. Niente corride ma sgomberi di occupazioni abusive, e chissà a questo punto quale significato avrà l’habanera. Don José è “un poliziotto violento”, Escamillo è un gitano di ritorno al campo rom (del resto zingari gitani e rom, in quanto tutti popoli romàní, sono intercambiabili per la cultura contemporanea, e chissenefrega dei falsi storici). Ma soprattutto la chiave di volta è che qui Carmen non muore. Anzi, è lei ad ammazzare Don José con un colpo di pistola e per legittima difesa, s’intende.
La “Carmen” di Bizet, così reinterpretata, andrà in scena dal 7 gennaio prossimo al Teatro del Maggio Musicale fiorentino, che ieri si conquistava una paginata su Repubblica proprio per spiegare – nel caso il pubblico non riuscisse a capirlo – che la rivisitazione è fatta “in nome delle donne”. Citiamo: “Nel momento in cui la nostra società è piagata dal femminicidio, come possiamo osare di applaudire l’uccisione di una donna?”. L’idea non sarebbe del regista Leo Muscato, ma del sovrintendente del Maggio, Cristiano Chiarot, che confessa: “Credo si possa rimanere fedeli allo spirito di un’opera prendendosi libertà etiche”. Cioè piazzando la nuova etica, la neolingua, un po’ dappertutto. Perfino nel capolavoro di Bizet, dove – come ammette Muscato – “il destino di morte di Carmen è il motore dell’opera”. E in fondo capiamo Muscato, che ha il dovere di ascoltare la committenza, meno il committente, che forse ci ha preso gusto negli “allestimenti moderni” arrivando addirittura a stravolgere trama e significato: basterebbe ricordare Nietzsche – che prese Bizet per schiaffeggiare Wagner e commentava il finale così: “L’amore che torna alla natura! Fare l’amore come fatalità, cinismo, innocenza, crudeltà – così com’è la natura. L’amore è una guerra, la cui sostanza è un odio mortale tra i sessi” – per capire che è un po’ riduttivo trasformare Carmen in un hashtag #metoo, e se il pubblico applaude lo fa per l’opera, perché ne ha compreso la bellezza, e non perché sta facendo il tifo contro la protagonista accoltellata a morte.
Questa è una recensione preventiva, certo, e la rappresentazione, con la direzione di Ryan McAdams, sarà di certo sublime. Ma sembra che per la regia di certi teatri ormai ci si affidi all’algoritmo, che seleziona automaticamente i temi cari al mainstream e si tiene in vita coccolando idee rassicuranti, che non destino scalpore, che non rischino di essere rinviate al giudizio del politicamente corretto. Ma che se ne fa, un teatro, di una platea di ottusi? E allora perché non far uccidere Don Giovanni da Leporello, vessato e bullizzato? Perché non far campare, invece, Tristano e Isotta? E che dire di Pinkerton, impunito pedofilo razzista che sposa una giovane geisha per usarla a suo piacimento? E a questo punto, non sarebbe più politicamente corretto lasciare che Otello chieda il divorzio, senza spargimenti di sangue? Abbiamo coperto le statue, abbiamo censurato le fiabe per bambini. Bisognerebbe dirlo chiaramente: questa neolingua, fatta di autocensure e stravolgimenti – della vita quotidiana, delle opere d’arte – è una violenza. Ecco la nostra modesta proposta: non chiamatela “Carmen”, perché Bizet aveva scritto un’altra cosa.