Aharon Appelfeld (foto LaPresse)

I tempi che viviamo e l'ineluttabile necessità di tornare ad Aharon Appelfeld

Guido Vitiello

Le lacrime del melodramma ci straziano, ma in fondo allo strazio c’è il premio di consolazione della catarsi

Entri nello Holocaust Memorial Museum, a Washington, e la prima cosa che ti trovi davanti è la fotografia a tutta parete di un ammasso di corpi ischeletriti e carbonizzati sotto gli occhi dei soldati alleati: “Americans encounter the camps”, si legge nella didascalia. Se il museo fosse un film, diresti che ti hanno svelato subito il finale. Poi, con quell’immagine in testa che non ti dà pace, percorri tutto l’itinerario, una lunga discesa nell’abisso dal 1933 al 1945, e a ogni nuova stanza ti ripeti: ecco, era ancora possibile impedirlo, se solo i protagonisti del dramma avessero saputo cosa li attendeva nella stanza successiva. Ti vien voglia di gridargli: scappate finché c’è tempo, non fidatevi dei falsi amici, delle rassicurazioni, delle promesse – e questo perché tu, visitatore, hai già visto l’immagine terribile all’inizio della mostra, ma loro, quelle facce nelle foto e nei filmati d’archivio, non potrebbero neppure concepirla. Se fosse un film, il museo di Washington sarebbe un melodramma, perché il segreto del melodramma, la molla che ci porta infallibilmente alle lacrime, è proprio qui: noi spettatori viviamo in una sorta di futuro anteriore, sappiamo come andrà a finire; ma i personaggi non lo sanno, e non abbiamo modo di dirglielo, è troppo tardi. Per questo milioni di persone in tutto il mondo piansero a dirotto quando, alla fine degli anni Settanta, fu trasmesso il melodramma televisivo “Holocaust” della Nbc.

 

Supponiamo però che qualcuno riesca a farci rivivere Auschwitz non già come qualcosa di concluso e irreparabile, ma come qualcosa che ancora deve accadere, una minaccia indefinita in cui avvertiamo, tuttavia, un elemento sinistramente familiare, che viene dal passato ma è come se venisse dal futuro – o viceversa. Se fosse un film, in questo caso, potremmo dire che siamo sul confine tra la fantascienza apocalittica e l’horror. Film del genere esistono, e il loro capostipite si chiama “Cassandra Crossing”, tratto da un romanzo del 1976 del giornalista Robert Katz. A bordo di un treno diretto a Stoccolma si diffonde un misterioso contagio, e i passeggeri muoiono uno dopo l’altro per asfissia. Le autorità sigillano il treno a Norimberga e lo dirottano verso un campo di quarantena in Polonia. I vagoni vengono blindati e sorvegliati dai militari. L’unico a capire la minaccia è un anziano sopravvissuto, pronto a morire sul treno pur di non rivisitare la Polonia. La catastrofe è attesa dal futuro, ma la premonizione è tallonata dalla reminiscenza, che la segue come un’ombra. Non piangiamo, ma abbiamo la pelle d’oca; non sapremmo dire perché, ma qualcosa in noi lo sa fin troppo bene. E’ ciò che Freud chiamava “perturbante”. Ma prima che Katz scrivesse il suo thriller e Cosmatos ne cavasse un film, qualcuno più grande di loro aveva già portato la memoria di Auschwitz nella regione dell’Unheimliche, la terra del ritorno del rimosso. Nel 1975 Aharon Appelfeld aveva pubblicato, in ebraico, il suo capolavoro Badenheim, località turistica (tradotto anni dopo come Badenheim 1939). Anche in questo resort di villeggiatura che ha tutta l’aria di un ghetto circola una specie di epidemia (“un’epidemia ebraica”, dice uno dei personaggi: e suona quasi come uno scherzo), e Badenheim è messa in quarantena. Gli ospiti sono obbligati a registrarsi presso il Dipartimento sanitario e poi fatti salire su un treno diretto in Polonia, dove pare che l’aria sia più pulita. “Venite a conoscere la cultura slava”, dicono i manifesti del Dipartimento sanitario, quasi un ufficio turistico. Non capiscono bene che succede, e noi siamo disorientati quanto loro – anche se mille dettagli suonano, appunto, sinistramente familiari.

 

Le lacrime del melodramma ci straziano, ma in fondo allo strazio c’è il premio di consolazione della catarsi. La pelle d’oca del perturbante non ci dà nulla, se non il senso di un rapporto non riconciliato tra quello che è già accaduto e quello che potrebbe accadere. Ho il sospetto che i tempi che viviamo impongano di tornare ad Appelfeld, morto a Gerusalemme questo giovedì.

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