Siamo una bozza editoriale mai definitiva
Quanto Facebook sarà capace di modificare, alla lunga, la nostra memoria, il valore che ha, la rappresentazione che produciamo quotidianamente (di noi stessi per gli altri) attraverso la scrittura?
Rileggo il Fedro di Platone mentre aspetto che asciughino i pavimenti. Trovo il Mito di Theuth e questo passaggio che dice: “La scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori, mediante segni estranei, e non dal di dentro di se medesimi”. Eccitato dalla bellezza del paragrafo, in vertiginosa consapevolezza di quanto contenga, di noi e dei secoli a venire, inebriato dal vaticinio e dal valore sacrale del ragionamento, mi sono chiesto – pardon se la domanda non è all’altezza dell’assunto, saranno stati i detergenti del discount – quanto Facebook, che ci ricorda periodicamente quel che abbiamo deciso di ricordare un anno prima, sarà capace di modificare, alla lunga, la nostra memoria, il valore che ha, la rappresentazione che produciamo quotidianamente (di noi stessi per gli altri) attraverso la scrittura, e che però domani sarà l’unica che avremo (di noi stessi per noi).
Stiamo, oggi, post dopo post, trasfigurandoci man mano che ci raccontiamo? Ma forse in altre forme è sempre accaduto. Forse i ricordi non esistono, non sono mai esistiti, son tutte invenzioni. Il fatto senza precedenti è che ci stiamo correggendo sempre e di continuo, come una bozza editoriale infinita e mai definitiva. Penso a tutto questo perché, bene o male, si tratta sempre di scrittura; minore, ok, molto minore, sì, diciamo pure un Museo dell’inedito estemporaneo che non ha avuto bisogno di aspettare la trovata franceschiniana… Però i social sono una grande cornice narrativa, un supremo archetipo-contenitore, luoghi di produzione di metafore, allegorie, scempiaggini assortite e codici più influenti di quanto non siano quelli di un romanzo o, men che meno, quelli di un saggio o, meno ancora, di un testo poetico.
Ma cosa c’è davvero all’interno di questa sproporzionata, bulimica produzione narrativa collettiva, di questa prima stesura nata già propalata e tesa a generare rinforzi dell’ego proprio e altrui, luoghi comuni a bizzeffe, avvilente conformismo espressivo?
Quel che non reggo dei social è, per esempio, il fatto che vi impera il calco prêt-à-porter. Ce n’è uno per ogni soluzione: c’è il calco tormentone-comico, il calco tormentone-intimista, il calco tormentone-invettivale. Questi calchi (adatto le mie povere parole a quelle del mito) non sono altro che la produzione di una scrittura imposta dal di fuori mediante segni noti, e non da dentro di sé e del proprio lessico, non dalla propria esperienza. Per carità, magari è addirittura un bene, però sono il contrario della scrittura, sono nonscrittura e nonpensiero. La scrittura, o meglio, l’esercizio della letteratura propriamente detta, prevede altre fasi, altre irrigazioni, numerose e più pazienti germinazioni. Soprattutto non la si pratica per dimostrare alcunché, non necessariamente parla dell’autore, dura apparentemente più di un post su Facebook (ma ormai di fatto dura anche meno) – di certo, incide in misura irrisoria sull’immaginario, non ne plasma il linguaggio, al massimo un titolo diventa un modo di dire, e non è mica poco, in tempi di carestia.
“Uno scrittore”, diceva Raffaele La Capria in un libro bellissimo intitolato “Il sentimento della letteratura” (tra un post e l’altro, chi ha tempo lo compri e se lo beva), “vive ed esiste per la sua differenza”. Per quanto piccola sia, in quella differenza c’è tutto quel che è o può essere: una differenza, insomma, molto capace. “Di solito”, ammoniva, “si preferisce invece annegare ogni differenza nella pigra e tiepida corrente omologante che tutto accoglie e trascina, che tutto rende omogeneo e indistinto”. Se non ho capito male, assecondando il pensiero del grande e profetico La Capria – mio Maestro a sua insaputa – il problema di certi scrittori è proprio questo: scrivono da sempre come se fossero su un social a pubblicare la foto delle vacanze, o della ragazza, o del libro al momento in lettura – luce calda, tazza di té su tavolo ligneo anticato col bicarbonato e tre biscotti di farro. In sostanza, scrivono rinnegando la propria differenza. Scrivono per inseguire un consenso generico, generale, generalizzato. Scrivono rinunciando “al di dentro di se medesimi” e si trasformano in postatori di parole, abdicando di fatto alla scrittura per la carezza della corrente. Possiamo dirlo? Bando agli allarmismi, il mondo non finirà: Facebook o Twitter l’hanno già inventato gli scrittori pigri.
(Poi chissà, magari qualcuno di questi l’abbiamo pure regalato per Natale. E proprio a quella cognata tanto simpatica che ci retuitta sempre).