Le stanze vuote di un amore
La malattia, la morte e la lingua della letteratura per affrontare il dolore. Un racconto di Yari Selvetella
"Ho sperato di incontrarti in sogno e temuto che accadesse – chi avrebbe sopportato di salutarti ancora”: se in ogni racconto c’è una frase che lo contiene tutto, è a pagina 121 che Le stanze dell’addio si dispiega per quello che è, commiato e rinascita, dolore fortissimo e amore che può rigenerarsi, ritorno nei luoghi appartenuti a una donna che non c’è più e saracinesca che su quegli stessi luoghi si chiude. Lui è Yari Selvetella, giornalista, scrittore, poeta, lei – che si ammala giovane e dopo pochi mesi muore – è Giovanna De Angelis, “madre di tre figli e di molti libri”, la definisce la bandella di questo struggente racconto appena uscito per Bompiani (188 pp., 15 euro). De Angelis è stata editor e traduttrice, per l’Einaudi soprattutto, poi per altre case romane come Fazi e Fanucci, e infine ha lasciato postumo un romanzo tutto suo, elegante e feroce, La frattura, pubblicato da Elliot nel 2014, in cui narrava in presa diretta la sua vita e la malattia, che della vita è sempre solo una parte.
Giovanna De Angelis è stata editor e traduttrice, e infine ha lasciato postumo un romanzo tutto suo, elegante e feroce
Dopo aver dato a voce a innumerevoli scrittori ed essersi raccontata lei stessa attraverso il filtro della finzione, Giovanna De Angelis rivive ora nelle parole del compagno che pubblica un romanzo-diario scritto nel tempo successivo alla sua morte e riscritto fino a oggi, pagine intime e di una bellezza quasi sacra. I due protagonisti delle Stanze dell’addio non hanno nome, non hanno età, pochi tratti li distinguono da tutti gli uomini e tutte le donne a cui è stato inflitto di separarsi per sempre: lui e lei esistono sulla pagina, si muovono dentro la scrittura di Yari Selvetella che non teme le ossessioni, anzi va a cercarle capitolo dopo capitolo, nei luoghi di un amore lungo dieci anni. Ci sono la stanza da letto svuotata e trasformata per permettere una ristrutturazione che potrà accogliere una nuova nascita, ci sono le stanze dell’ospedale dove lei è stata e da cui è sparita, ci sono stanze come spazi onirici, come cabine di navi, stanze chiuse da vetri a specchio, stanze dove i bambini vengono al mondo e stanze dove le persone muoiono, stanze in cui si mescolano la rabbia e l’impotenza, la cura e il ricordo, la vita già trascorsa eppure così nitida e ancora presente. “Io ho ricominciato a lavorare”, scrive Selvetella, “In altri luoghi scrivo, succhio gamberi, respiro foglie balsamiche, faccio l’amore, ma una parte di me è qui, sempre qui, impigliata a un fil di ferro o a una paura mai vinta, inchiodata per sempre: il puzzo di brodaglia del carrello del vitto, quello pungente dei disinfettanti, il bip del segnalatore del fine-flebo, la porta che si chiude alle mie spalle quando termina l’ora della visita”. Il tempo di questo cammino non è lineare, non può esserlo: si mescolano le vacanze insieme e il primo appuntamento con un’altra donna dopo il lutto; sfilano i tre bambini nelle loro diverse età, quello grande, quello piccolo, quello né piccolo né grande, e una quarta bambina che nascerà; compare un uomo aggrappato al dizionario del dolore (malattia in remissione, mialgia, cellule malate) e poi lo stesso uomo che per salvarsi dall’afasia scava nella letteratura in quei dieci anni di vita comune che sono anche dieci anni di parole: i racconti di Borges e la maga di Cortázar, gli incipit di Simenon e i sogni di Ladislao José Biro, e poi Gadda, Tournier, la matita di lei sulla pagina da editare, gli Harry Potter coi figli sul lettone, l’ultimo bestseller a un’asta di Francoforte – tutto insieme, la letteratura che tiene in piedi la vita e viceversa, mentre il confine fra l’immaginario e il vissuto si fa labile e si piega alla necessità di raccontare.
“E’ lì che sei anche ora? Nella stupida innocua splendida carta in cui passa la storia che stai scrivendo, la storia vera di te, di tutti noi, e dunque inventata? O nel referto maledetto di un ago nel midollo, per un esame che non riesco a ricordare come si chiama”. Due lingue dunque, la lingua dell’ospedale e quella della letteratura, legano un uomo e una donna che si sono amati, due diversi linguaggi talmente forti da sorreggere e tenere insieme le apparizioni degli uomini e delle donne venuti prima e dopo (un vecchio amante di lei incontrato in ascensore, la nuova compagna di lui che gli darà una bambina), perché quell’amore “è stato prezioso come molte cose sono preziose in questo mondo che hai dovuto lasciare troppo presto”, e lo scandalo è scoprirsi capaci di amare ancora e meglio, proprio perché si è amato molto e molto si è stati amati.
"Ho ricominciato a lavorare. Ma una parte di me è qui, sempre qui, impigliata a una paura mai vinta, inchiodata per sempre
Così, nelle parole di un libro che appartiene insieme alla tradizione del lutto e alla scoperta della rinascita, scopriamo fino a dove può scavare il dolore, ma scopriamo anche come dentro quello scavo nasca uno spazio che può di nuovo essere riempito, a patto di non scappare, non negare, non chiudere gli occhi, a patto di aver conosciuto fino in fondo la tortura spietata della perdita, perché ciò che è stato tolto non tornerà uguale e neppure simile, ma da lì potrà forse nascere altra esperienza di altrettanta forza, mentre quell’eterno mancare ricorderà al lettore i versi di Attilio Bertolucci: “Assenza, / più acuta presenza. / Vago pensier di te / vaghi ricordi / turbano l’ora calma / e il dolce sole. / Dolente il petto, / ti porta / come una pietra / leggera”. Oppure, come scriveva Julian Barnes in Livelli di vita: “E’ questo che spesso chi non ha attraversato il tropico del dolore fatica a capire: il fatto che una persona sia morta può voler dire che non è viva, non che non esiste”.
A volte Selvetella scrive in prima persona, altre si schiaccia su un “tu” impossibile perché rivolto a una donna che non c’è più, altre ancora ricorre a un doppio, a un uomo coi baffi, a un barista, attribuendogli pensieri paralleli o troppo pesanti da sostenere (in un altro libro sulla morte della compagna di una vita, La fine del giorno, Pierluigi Battista usava la terza persona dell’alter ego P., perché guardarsi dall’esterno a volte è il solo modo per raccontarsi nel profondo). Mai però, in nessun momento, la voce narrante, ed errante nei luoghi del congedo, cerca scappatoie dalla scrittura o cerca di eclissarsi, di spezzare il filo rosso che ha deciso di seguire, ovvero la ferrea storia di una disperazione, dell’abbandono più atroce, che intanto diventa la storia di una riconquista, di una risalita. Mentre indaga dentro di sé, quella voce scolpisce il ritratto di una donna che non si è lasciata vincere, non si è lasciata rinchiudere tutta intera in nessuna stanza, ma ha continuato ad abitarle una a una, nelle parole e nell’amore di chi le è sopravvissuto.
Il necrologio dello scrittore secondo Faulkner. Joan Didion e la perdita del marito. Frammenti di "Moby Dick" come esergo
“William Faulkner disse un giorno che il necrologio di uno scrittore dovrebbe essere questo: ha scritto dei libri, poi è morto”, riporta Joan Didion nell’Anno del pensiero magico, in cui racconta i dodici mesi successivi alla morte del marito John Gregory Dunne, dodici mesi in cui, dopo quarant’anni insieme, ha dovuto accettare la sua scomparsa, fingere di credere che fosse morto veramente, mentre dentro di sé pensava soltanto: lo rivoglio indietro. Didion credeva sul serio che John sarebbe potuto tornare e perciò le sembrava folle ipotizzare che altre persone avrebbero potuto avere le sue cornee o indossare le sue scarpe. Delle fasi del lutto schematizzate dalla psicologia, l’incredulità è la prima subito dopo il trauma: non è possibile che tu non ci sia più se io ti sento ancora qui, dev’esserci un errore, e poi come farei a stare in piedi se davvero mi mancasse un arto. Seguono rabbia, negoziazione, depressione, accettazione – non per forza in quest’ordine anzi quasi sempre in nessun ordine, ma tutte insieme lungo quel processo che chiamiamo “elaborazione del lutto”. Può sembrare un corpo a corpo tra chi se n’è andato e chi è rimasto, ma quel dualismo è un’illusione perché la dimensione tragica del duello è monolitica, la lotta si consuma all’interno di uno stesso sé, abitato da un lascito e da eredità spesso involontarie. La vita, durante e dopo il lutto, è un condominio infestato di presenze.
“Ha scritto dei libri, poi è morto” è dunque secondo Faulkner il necrologio che costituisce l’approdo di quel percorso; “ha creato dei libri, poi è morta”, si potrebbe dire di Giovanna De Angelis, romanziera di un libro solo ma madrina di infiniti percorsi fra i libri degli altri. Eppure le parole, tutte le necessarie parole, sono anche insufficienti. Julian Barnes, vedovo dell’agente letteraria Pat Kavanagh, dopo trent’anni passati con lei fra i libri, scrive di aver cominciato nel pieno del lutto ad apprezzare l’opera lirica: “Per quasi tutta la vita mi era sembrata una delle forme d’arte meno comprensibili (…). Adesso risultava del tutto naturale che le persone cantassero in palcoscenico l’una per l’altra, per il semplice fatto che il canto è un mezzo di comunicazione più immediato della parola, per levatura e profondità”. Il dolore cerca la cieca poesia, gli abissi più leggeri: “Va bene, abbiamo solo bisogno di un racconto, di una favola, di un’epica, di nemici ed eroi, di bauli da riempire e conservare. Datecene. Commiserateci”, sintetizza Selvetella.
"Scopriamo fino a dove può scavare il dolore, ma anche come dentro quello scavo nasca uno spazio che può di nuovo essere riempito
E poi c’è il mare. Le stanze in cui si dice addio non sono soltanto posti chiusi e riempiti dall’abitudine e dalla memoria, ma anche luoghi immaginifici fatti di acqua, oceani abitati da mostri benefici e spaventosi, luoghi sconosciuti e lontanissimi verso cui si può avere il coraggio di partire per non sprecare il tempo nel rimpianto di ciò che è stato. Il libro è diviso in tre parti e tutte hanno come esergo un frammento di Moby Dick; “Balene” è il titolo del primo capitolo e “Siamo già noi soli, su quel peschereccio” la frase che lo apre, mentre nella “Lettera all’uomo coi baffi” che lo conclude un uomo si licenzia dal lavoro in ospedale e cambia vita, cerca l’avventura sulle navi da crociera, guarda la linea di confine dell’orizzonte e sogna i bar del porto dove mangiare gamberi, fumare e parlare, perché sulla nave “il tempo è solo un racconto” e bisogna navigare a lungo prima di trovare l’approdo giusto, quello che acquieta e consente una ripartenza. E la creatura gigantesca che di tanto in tanto emerge dai fondali, terrificante e misteriosa, forse è una preda e forse il predatore, forse rappresenta la coscienza e forse l’istinto, ma di certo ci ricorda, increspando appena l’acqua nel buio della notte, la velocità degli attimi che cambiano tutto e l’inestricabile contiguità della vita con la morte.