Michele De Lucchi, architetto di stato
La poetica degli oggetti (sua la lampada Tolomeo) e la grandeur museale-istituzionale. Chi è De Lucchi, molto più che un designer
Mancava solo la direzione di Domus alla consacrazione d’architetto di Stato, e adesso è arrivata. Michele De Lucchi, designer già principe dei nostri anni Novanta, firma la rivista d’architettura fondata da Giò Ponti a partire dal numero di gennaio, mentre ci si avvia verso il centenario dalla fondazione (2028) e il decennio sarà affidato a dieci architetti, a fianco della direzione editoriale di Walter Mariotti. Per De Lucchi è dunque l’apoteosi, e non che ne avesse bisogno, anche se tra le grandi archistar italiane è sempre stato laterale; mimetizzato dietro la lunga barba, meno internazionale, mancante della monumentalità senatoriale d’un Renzo Piano. Meno immaginifico e televisivo d’un Massimiliano Fuksas (e privo d’imitatori), Michele De Lucchi è sempre stato in disparte, considerato talvolta con crudeli distinguo solo un ottimo designer, soprattutto facitore della lampada da tavolo più venduta della storia italiana, quella Tolomeo argentea che campeggia sulle meglio scrivanie, dal ragiunatt al capitano d’azienda.
Mancava solo la direzione di Domus: ora è arrivata. Firma la rivista d'architettura fondata da Giò Ponti dal numero di gennaio
Tra i vezzi dell’architetto nato a Ferrara (ma da famiglia veneta) nel 1951, solo appunto il barbone sapienziale segnala che trattasi di star, nello specifico architettonica; barbone in realtà tessuto anni fa per differenziarsi dal gemello Ottorino: “eravamo sempre identificati come i gemelli ed eravamo come una persona sola” scrive nel suo libricino autobiografico “I miei orribili e meravigliosi clienti”, edizioni Quodlibet. “Andavamo a scuola insieme, nella stessa classe, a letto nella stessa camera”. “Eravamo anche i primi di una numerosa famiglia e mia madre aveva ben scoperto l’utilità di dividerci a coppie. Poi io sono andato a studiare architettura a Firenze e Ottorino è rimasto a studiare chimica e poi farmacia a Padova”.
Il destino sarebbe stato l’augusta facoltà d’Architettura a Venezia, ma sono gli anni della protesta e il padre lo manda a Firenze. E così s’imbatte in un altro tipo di protesta, quella creativa dell’architettura radicale, quel movimento che stava stravolgendo il design italiano con sberleffi molto poco italiani; “questa concezione non tecnico-costruttiva del fare architettura e questa idea di una architettura consapevole e propositiva che sapeva spaziare usando immagini, fotografie, modelli, video e spettacoli”, scrive sempre lui. A Firenze, infatti, mentre nel resto dell’accademia si diffondono le proteste astiose che poi sfoceranno nei posti nei ministeri e all’università e negli assessorati alla cultura (e in mammozzoni inabitabili, in Corviali e Vele di Scampia), sta succedendo qualcosa di strano. “Divertirsi ad architettura!” titola sdegnato un articolo della Nazione su ciò che accade in facoltà: gruppi e collettivi come Archizoom, Buti, 9999, Gianni Pettena, Superstudio, Ufo, Zziggurat, hanno dato vita a zingarate che cominciano a terremotare la scena cittadina precedentemente improntata a ribollite, orafi, caffè delle Giubbe Rosse, e lanciano questo movimento che nasce grazie all’alluvione. Nel 1966 infatti l’Arno tracima e l’architetto Natalini (il maestro di De Lucchi, che sarà poi suo assistente) accoglie l’invito del collega Cristiano Toraldo di Francia a spostarsi su a Bellosguardo, poiché Firenze è allagata. Grazie all’Arno nasce dunque Superstudio che (come si vide nella mostra l’anno scorso al Maxxi a Roma) progetta “monumenti continui” e fotomontaggi, design, happening, découpage e manifesti. Un’opera totale da factory wahroliana che nasce lo stesso anno in cui Pasolini fa “Uccellacci e uccellini” e mentre ci si strugge già per i sensi di colpa del boom. Mentre i radicali con un altro gruppo, Archizoom, teorizzano una “architettura della superproduzione, del superconsumo, della superinduzione al superconsumo, del supermarket, del superman e della benzina super”. A Firenze, diversamente che nelle altre cupe università italiane, ci si prende insomma come in California solo il meglio dei sessantottismi. Come si è visto l’anno scorso nella fondamentale mostra “Hippie Modernism” a Berkeley, lì i capelloni fondano startup e inventano il computer e internet, senza perdere tempo con P38 e ciclostili. Qui, ugualmente, la riflessione e la rivolta passa direttamente in produzioni pratiche e di successo come gli istogrammi di Superstudio, che col laminato bianco e nero finiscono direttamente bestseller nel catalogo Zanotta. Ma anche: Archizoom disegna vestiti. Buti le sue ceramiche. Poltronova i suoi divani fluo. Tutto un indotto pronto da mettere sul mercato, celebrando il genio poliedrico italiano, con testimonial il fratello maggiore Ettore Sottsass.
Gli studi a Firenze, dove, diversamente dalle altre università, ci si prende come in California solo il meglio dei sessantottismi
Con questo terreno di coltura, che guarda da una parte alla narrativa di oggetti che “parlano” e che vengono fuori in technicolor dalla gabbia funzionalista, dall’altra con una sensibilità molto californiana all’ambiente ma anche alle possibilità produttive di serie, il giovane De Lucchi prima si presenta alla Triennale milanese del 1973 – Triennale transennata dalla Polizia in assetto antisommossa – con un cappello da Napoleone e improvvisa una performance. “Ascoltatemi! Ascoltatemi! Io sono un designer in generale e in generale un designer. Io dono al mondo la bellezza delle cose utili! Io sono pagato perché voi possiate vivere nel bello, nel comodo, nel soffice, nel funzionale, nel colorato, nell’allegro!”. E poi però subito dopo fonda Cavart, movimento ecologista che va a occupare le cave dei colli Euganei con grandi happening molto hippy e teorizza una semplificazione dell’architettura e della vita di tutti i giorni. In queste due fasi, quella napoleonica e quella agreste, si potrebbe dire che è concentrato il De Lucchi-pensiero, pensiero tormentato col tormento dei radicali, un po’ clownesco ma poi giansenista, sempre alla ricerca, per gli oggetti, di “una ragione che non fosse solo la funzione ma nascesse da una storia, da una evocazione che li rendesse speciali e capaci di raccontare”, secondo la definizione autografa.
Nel frattempo c’era stato anche poi l’incontro col nume tutelare, Sottsass (di cui De Lucchi ha curato la mostra in corso in Triennale a Milano). Sottsass il liberatore a colori del design italiano, il poliedrico tirolese che terremota l’Area C del funzionalismo milanese. Si erano conosciuti negli anni Settanta, poi quando il maestro già anziano fonda Memphis (“il movimento che portava avanti la filosofia di progetti che nascevano dalle esigenze dell’uomo e non dell’industria”), De Lucchi è uno dei giovani soci.
Ma a fianco della poetica degli oggetti – rivendicata oggi (“la mia Domus sarà dedicata agli oggetti, al loro valore e ai loro significati”) – c’è la grandeur museale-istituzionale: De Lucchi è stato l’unico designer “ma anche architetto” italiano un po’ di Stato, in grado di disegnare musei-uffici-lampade e poltrone definendo un’epoca e lasciando un segno; dei grandi della stagione precedente, dei suoi altri maestri, Sottsass non aveva il physique du rôle per affrontare la grande scala, troppo ridanciano e colorato; preferiva piccole architetture private, o comunque scrivere disegnare fotografare. Gli altri due, Castiglioni e Magistretti, hanno perfezionato le loro architetture da camera. De Lucchi invece fa tutto: va anche in esterna e diventa lo scenografo degli anni Novanta italiani, quel decennio di good design non troppo invasivo, “cozy” e non perturbante: come la sua Tolomeo rispetto alla Tizio di Richard Sapper che invece aveva definito gli Ottanta. La Tolomeo, Compasso d’oro, disegnata insieme a Giancarlo Fassina dell’ufficio tecnico Artemide, la lampada appunto più venduta della storia italiana, fa entrare il design dove prima non c’era.
L'altro grande capitolo nel suo arredare il nostro immaginario è quello delle Poste: dal 1998 al 2003 ridisegna completamente l'azienda
Nella Tolomeo le molle sono nascoste e il meccanismo occultato, così come il cavo, mentre in bella mostra ci sono i tiranti metallici che danno alla lampada quell’aspetto industriale-architettonico degli edifici di Renzo Piano: sembra insomma di avere sulla scrivania un piccolo Beaubourg, con tutti quei tiranti e ingranaggi che ti fanno sentire intelligente perché ingegneristici, ma tranquillizzano perché in fondo sono aggeggi addomesticati: è pur sempre una lampada da tavolo; e siamo dunque un po’ nel midcult architettonico, molto vicini al kitsch. La Tolomeo, col suo design rassicurante, con le mille versioni, grande e piccola e in talune fogge addirittura con effetti abat-jour della nonna, era del resto la risposta anni Novanta, anni di riflusso e riflessione, alla spigolosa e essenziale Tizio, summa del pensiero anni Ottanta. La Tizio era protagonista in Wall Street, sulla scrivania di Gordon Gekko, era un lume predatorio, con la corrente che scorre direttamente nei bracci. Era il manifesto funzionalista di Richard Sapper, il tedesco che inventò l’estetica protestante del secolo breve milanese (le tv affilate Brionvega, le sveglie testosteroniche Braun, le caffettiere di perfezione tecnologica Alessi).
De Lucchi invece fa cose tanto carine: l’altro grande capitolo nel suo arredare il nostro immaginario è quello delle Poste: dal 1998 al 2003 ridisegna completamente l’azienda di spedizioni italiana a partire dal logo e dalla ragione sociale, col rosso che lascia il posto al giallino rassicurante, agli uffici a seguito della trasformazione in società per azioni. “E’ stata una delle cose che ha cambiato la faccia della pubblica amministrazione” dice al Foglio Corrado Passera, che all’epoca era amministratore delegato di Poste. “De Lucchi non è il classico architetto che fa il disegno e basta; i modelli li provavamo insieme, ci sedevamo dalla parte degli impiegati e da quella del pubblico, per capire cosa funzionava e cosa no. Se non funzionava, si riprovava”, dice il manager, che aveva conosciuto De Lucchi già in Olivetti quando l’architetto lavorava (come Sottsass) al design dell’azienda di Ivrea. Dal 1979 infatti era entrato a disegnare la linea Synthesis di Olivetti. Poi per Intesa, ricorda Passera, disegnerà diverse filiali, e le Gallerie d’Italia, il polo museale di piazza Scala.
Oltre al logo giallino e rassicurante delle Poste, agli uffici postali confortevoli e carucci, c’è infatti un altro De Lucchi molto “pubblico”; quello dei musei e degli uffici: La Triennale di Milano, le Gallerie d’Italia a piazza Scala, l’Unicredit Pavillion a Milano. Ma attenzione: non c’è un grattacielo De Lucchi nel nuovo skyline milanese distribuito pur con manuale Cencelli tra le massime archistar globali; c’è appunto il pavillion, un padiglione, comunque un posticino d’onore nel nuovo âge d’or milanese, ai piedi dei grattacieloni-grandi firme. E c’è una stazione di servizio, quella appena ristrutturata per ospitare Lapo Elkann e le sue imprese. Lo studio sta in centro a Milano, fino a qualche tempo fa ce n’era uno anche a Roma, dal quale ha effettuato interventi soprattutto pubblici (allestimenti alle Scuderie del Quirinale, risistemazione del Palazzo delle Esposizioni); e quando ha chiuso, in molti l’hanno registrato come un ulteriore segnale della decadenza romana.
La performance alla Triennale milanese del 1973: “Ascoltatemi! Sono un designer, dono al mondo la bellezza delle cose utili!”
E però se in Italia non ci sono grattacieli col suo nome, all’estero c’è addirittura una De Lucchi-città: in Georgia, nella capitale Tbilisi, non c’è praticamente edificio pubblico che non sia stato disegnato dall’architetto barbuto: suoi il ministero degli Interni e quello degli Esteri, il Ponte della Pace, più vari edifici sparsi per il Paese. Fu chiamato dal presidente Saakashsvili, come in un romanzo di Franzen (“i georgiani, il loro presidente, volevano avere edifici nuovi, mai visti, straordinari. Moderni, unici, diversi. Non è sempre stato facile capirli e non tutto quello che è stato realizzato è meritevole di essere menzionato, ma scoprire il ruolo dell’architettura nella costruzione di un’identità nazionale è stata un’esperienza unica sulla quale ho riflettuto molto”). Alcuni sono belli, altri così così: con le grandi dimensioni e il post-moderno non sembra essere troppo a suo agio.
Infatti di fronte alla grandeur oppone tutto un suo lato intimistico, che ritorna all’anima degli oggetti: si dedica soprattutto a casette in legno che scolpisce armato di motosega, scolpisce in serie, una diversa dall’altra, modellini sognanti che talvolta espone, e secondo qualche feroce critico sono la sua massima espressione poetica; le fabbrica nella sua casa-studio di Angera, luogo massimamente borromaico sul lago Maggiore, sulla rocca, dove lavora nel “Chioso”, il suo studio, ex pollaio, ex capannone, che ha “un portico lungo e bello che uso per fare passeggiate senza perdermi quando penso”. “Sto ancora pensando perché faccio queste casette e perché sono belle così piccole e tutte storte e sarebbero invece così brutte realizzate in scala reale tutte diritte e perfette con le gronde e le finestre sigillate con gli scuri e i balconi e gli interruttori per accendere le lampadine” scrive sempre nei “Miei orribili e meravigliosi clienti” (e ci si chiede sempre in quale genere letterario ricondurre la prosa di questi massimi architetti, quasi sempre leziosa, con paratassi bambinesche come se a fronte di strutture e calcestruzzi arditissimi e sofisticati ci fosse bisogno di una scrittura da fanciullini un po’ Andrea De Carlo, anche in massimi genii come lo stesso Sottsass, di cui tutti gli scritti sono stati recentemente ripubblicati da Adelphi). Sul suo Instagram De Lucchi fotografa e pubblica soprattutto ruderi e architetture primordiali; in Germania ha disegnato una cappella che pare un monolite romanico in una collina da Ghirri; e al lato poetico-solitario contribuisce una sua piccola azienda, si chiama Produzione privata e realizza oggetti di design buono ma semplice (“con Produzione privata voglio crearmi la possibilità di seguire le mie riflessioni e di esprimere i miei pensieri. L’idea è di dare valore, prestigio e futuro al mondo artigianale di oggi”). Seggioline, mensoline, vasetti, oggettini più che radicali molto borghesi, da salotto di nonna speranza. Che barba.