Servirebbe uno come Norman O. Brown, che scriveva "La vita contro la morte"
Nel vuoto del discorso pubblico, un filosofo molto (in)attuale
Dopotutto, ogni tanto, per ridere, ma anche per non soccombere (le due esigenze in effetti sono poi la stessa cosa), mi figuro che cosa capiterebbe se a un certo punto, nel discorso pubblico di oggi, prendendosi tutta la scena, irrompesse il messia. E se dico messia, vi prego, non fraintendetemi; perché lo dico piano, a lettere minuscole, senza nessuna idea religiosa, solo con una specie di entusiasmo bibliofilo. Bisogna essere chiari su questo punto. Ora, come messia, almeno per oggi, sarebbe più che sufficiente un autore dimenticato, poco letto, ma assai importante come Norman O. Brown, un’inclassificabile studioso americano che negli anni Sessanta divenne uno dei punti di riferimento della controcultura e che scrisse almeno due libri di importanza capitale: “La vita contro la morte” (fu uno dei libri scelti con grande determinazione da Roberto Bazlen per dare carattere e battesimo alla nascente Adelphi) e “Corpo d’amore” (uscito per il vecchio Saggiatore, ormai fuori catalogo). Che cosa faceva Norman O. Brown? Innanzitutto prendeva Freud e poi lo portava alle sue estreme conseguenze augurandosi la manifestazione e l’irruzione piena dell’inconscio, cioè dell’istinto di vita, all’interno della contemporaneità, ultimo prodotto della storia dell’uomo guidata invece dall’istinto di morte.
I suoi libri sono un’invocazione affinché Dioniso possa ritornare sulla scena per riprendersi ogni cosa; sono libri indispensabili proprio perché il primo gesto che ci verrebbe da fare sarebbe identico a quello che faremmo se ci trovassimo davvero di fronte al messia: sono libri che scaglieremmo contro una finestra chiusa (aperta no, qualcuno potrebbe raccoglierli e leggerli), per il fastidio, l’imbarazzo, il senso di vergogna, per la polvere che si è accumulata in pochi anni su quelle pagine, per l’inadeguatezza evidente, per la follia della lettura, per il dilettantismo, per l’ingenuità sospetta, per l’intelligenza illuminata, per l’inattualità di un solo sguardo santo e riprovevole capace, nello stesso tempo, di tenere insieme Freud, Rilke, i mistici tedeschi, Lutero, gli uomini primitivi, Joyce, gli sciamani indiani, Marx, Nietzsche e, cosa più importante di tutte, ogni singolo neonato che, come l’anima per Aristotele, è in potenza tutte le cose. Attorno a libri come questi si radunano presto gli altri messia, il cielo si affolla, e noi non sappiamo più che cosa fare. Balbettiamo, tacciamo, ci sentiamo feriti e improvvisamente tutto ciò che occupa i nostri giorni e le nostre intelligenze affonda nell’inesistenza che gli è propria. Vengono in mente i versi che Elsa Morante scrisse in un libro per molti versi affine, per ingenuità rivendicata e splendore manifesto, a questi di Norman O. Brown, “La canzone degli F.P. e degli I.M.”: “Questa nube ronzante delle decomposizioni è sorda / allo stormire melodioso dei cerchi concentrici / verso il mantra liberatorio intelleggibile / vostro nome unico. / L’occhio sfaccettato del delirio / dato all’assurda moltiplicazione dello spettro / non vede / il cuore fanciullo / il nostro vostro corpo / unico / presente / attuale / vivo / o tu reale, scontrosa / felicità”.
P. S.
In una lettera del 26 gennaio del 1968, un grande scrittore come Rodolfo Wilcock, considerato a torto un intellettuale freddo e astratto – ma lo era per pudore e mascheramento iniziatico – scrisse a Elsa Morante a proposito della sua Canzone: “Cara Elsa, il tuo Poema, non so come parlarne, perché mi ha fatto piangere, non lo potevo leggere, non piangevo di tristezza, ma di commozione, (…) è un Poema da baciare con rispetto, quasi parlarne non si può”.