Foto tratta dal profilo Facebook di Matteo Marchesini

Il critico Marchesini è troppo libero, l'editore meno. Bastava fare come Vittorini

Guido Vitiello

Un libro rifiutato e un mondo editoriale ridotto a sottobosco

Un vademecum per lettori selvaggi che vogliano orientarsi nel sottobosco dell’affaire Marchesini, in quattro tappe bibliografiche più una quinta esoterica.

 

L’antefatto, o il fatto mancato, è questo: il critico Matteo Marchesini doveva pubblicare ad aprile, per Bompiani, una raccolta di saggi intitolata “Casa di carte. La letteratura italiana dal boom ai social”. Aveva già divulgato la copertina, che equivale a spedire le partecipazioni di nozze, ma Antonio Franchini l’ha mollato all’altare. Gli ha fatto capire che non intende pubblicare un libro dove si pestano, tra cento altri, i pugili della sua scuderia: Montesano, Scurati, Moresco. “O togli i pezzi, o ‘Casa di carte’ non esce”. Dunque non esce; ma qualche lezione da cavarne c’è – sullo stato dell’editoria, della società letteraria e di quella che fu la critica militante.

 

1. Ci sono verità segrete esposte in evidenza e verità evidenti che si vorrebbero ricacciare nel segreto, o nel non pubblicato. Alla prima specie appartiene la vicenda editoriale di “Minuetto all’inferno”, il romanzo dell’esordiente Elémire Zolla che Einaudi, nel 1956, pubblicò nei Gettoni, la collana di Elio Vittorini. Dal carteggio tra i lettori e i consulenti di via Biancamano sappiamo che Vittorini era perplesso, e che Carlo Fruttero tentava di farlo ricredere. Dopo lunga ed esacerbata discussione letteraria si giunse infine a uno strano compromesso. Il libro uscì, ma Vittorini volle garbatamente impallinarlo sul risvolto di copertina: “Non so, francamente, che cosa valga questo romanzo”. Capovolgete lo schema e avrete il caso Marchesini: un libro che non esce, e per ragioni non letterarie. A ridosso della stampa il direttore editoriale non ha la minima idea di che cosa sta per pubblicare, e neppure ha tempo di inventarsi un motivo plausibile; anche perché vai a spiegare quell’aut aut come un gesto di cortesia verso Moresco, l’uomo che contro le logiche del potere editoriale ha scritto le settecento pagine di “Lettere a nessuno”.

 

2. Nel 1991, l’anno del “Portaborse” di Luchetti, anche la società letteraria dà la sua piccola spallata alla partitocrazia. Lo fa con un libro di Guido Almansi, sobriamente intitolato” Perché odio i politici”. Quasi cento intellettuali – in larghissima parte scrittori, editori e critici – rispondono alla domanda. E’ un documento dell’indignazione virtuosa dell’epoca, neppure troppo interessante. Ma stupisce che nessuno degli interpellati spenda una parola sulle eventuali analogie tra le logiche della società politica e quelle della società letteraria. Come se la Repubblica delle lettere non avesse incorporato negli anni i meccanismi con cui altrove si amministra il potere – corporativismo, familismo amorale, capitalismo di relazione, ribellismo consociativo, terrore del rischio d’impresa, protezione delle posizioni di rendita, prudente evitamento del conflitto.

 

3. Non accade solo da noi (ma qui è peggio). “Oubliez les philosophes!”, un pamphlet del giornalista-filosofo Maurice T. Maschino, si apriva con un ringraziamento irrituale alle Editions Complèxe: “E’ grazie alla libertà di spirito di un editore belga che questo libro vede la luce. La sua pubblicazione in Francia si è scontrata, in verità, con molti divieti”. La data di pubblicazione è il 2001, non sappiamo quanto sia durata l’odissea editoriale ma Maschino ci informa sui ciclopi che ha dovuto affrontare: “Mi piace molto il suo libro, mi ha detto un grande editore della Rive gauche, avrà senz’altro un grande successo, ma tra i miei direttori di collana ho tre filosofi noti: non posso permettermi il lusso di irritarli, e ancor meno di perderli”. Altri non avevano filosofi in casa, ma contavano sui filosofi-recensori: “Se la pubblico, fine della loro collaborazione”. Così, il parigino Maschino ha trovato casa a Bruxelles. Il bolognese Marchesini, chissà.

 

4. Se ne deduce che lo spazio del dibattito letterario è stritolato tra i confini delle signorie e dei principati editoriali accampati sulla penisola; e che, idealmente, al critico militante è concesso di sopravvivere solo come critico militarizzato, sotto le insegne araldiche del marchio che lo pubblica. Questo pone il problema, assai caro a Raboni, della responsabilità del critico verso i lettori, oggi che i valori della letteratura sono sottoposti a un “tentativo di cancellazione” senza precedenti: “Un tentativo cui concorrono, di fatto, mercanti in malafede e intellettuali in buonafede, bizzarramente uniti in un’inconsapevole e orribile alleanza”. Sono parole che introducono la raccolta di articoli “I bei tempi dei brutti libri”. Per esplicitare il mio conflitto d’interessi, devo informare il lettore che me lo prestò anni fa Marchesini, e che non gliel’ho mai reso.

 

5. Il libro doveva chiamarsi “Casa di carte”, riferimento a “House of Cards”, la serie sulle macchinazioni di Frank Underwood, che potremmo tradurre con Franco Sottobosco. Per gli amanti di cabale onomastiche, è appena il caso di ricordare che ogni “Casa di carte” ha i suoi franchi e franchini; più illuminante è ascoltare il delizioso accordo che si genera tra quel cognome e una frase di J. Rodolfo Wilcock: “L’omertà vien detta buon gusto quindi è considerato di cattivo gusto rivelare le vicende losche del sottobosco letterario (bosco vero e proprio non c’è, d’altronde)”.

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