Grazie alle sue parolacce Sgarbi continua a salvare l'arte dall'oblio
Andate alla mostra "La collezione Cavallini Sgarbi" a Ferrara
Adesso capisco tutte quelle parolacce. E’ dal 1989 che Sgarbi rovescia sul mondo ogni sorta di epiteti. Senza il seminale “Stronza!” gridato sul palco del Maurizio Costanzo Show a una poetessa oggi dimenticata non esisterebbe la gran mostra visitabile in questi giorni al Castello Estense di Ferrara, “La Collezione Cavallini Sgarbi. Da Niccolò Dell’Arca a Gaetano Previati”. Senza turpiloquio Sgarbi non sarebbe diventato Sgarbi, forse sarebbe diventato un Flavio Caroli meglio vestito (Caroli sfoga nella maglieria l’amore per il turpe che alberga in molti esteti), forse si sarebbe confuso con i mille storici dell’arte che qualcosa sanno ma che ti fanno sbadigliare appena aprono bocca. E invece Sgarbi è diventato quello che conosciamo e perciò dagli anni Novanta ha ottenuto principeschi contratti televisivi senza i quali pochi dei 130 quadri esposti a Ferrara sarebbero stati comprati. Qualcuno sì, grazie ai generosi compensi versati da Franco Maria Ricci per gli articoli su FMR, la rivista più bella del mondo, epitome e vanto degli anni Ottanta (anni di plastica? Di plastica sarà il cervello di chi scaglia una simile formula contro l’ultimo decennio di benessere e sovranità, dunque prima di Tangentopoli e Maastricht). “Ricci nell’82 mi dava 250.000 lire a cartella e l’Europeo due milioni al mese, ogni mese guadagnavo dieci milioni”, mi dice Vittorio poco prima del discorso inaugurale, in una sala già della corte estense e ora della corte sgarbiana, una folla di amici, famigli, collaboratori e belle ragazze premurose che potrebbero essere figlie o fidanzate o semplicemente assistenti, vallo a capire. Fu con quei primi soldi che nel 1984 comprò il monumentale San Domenico di Niccolò dell’Arca, busto in terracotta di integrità miracolosa, che in mostra fronteggia un’altra scultura del quattrocentesco artefice, la fierissima Aquila di recente acquisizione. Se siete di fretta, se avete tempo solo per una sala, visitate questa. Sia per l’eccezionale valore artistico sia per il peculiare valore sentimentale: entrambe le opere sono entrate in possesso di Sgarbi subito dopo l’uscita dalla vita terrena di un famigliare adorato, la prima quando morì lo zio Bruno Cavallini, la seconda dopo la perdita della madre Rina, Cavallini anche lei (e così si spiega il doppio cognome della Collezione). Non un risarcimento, ci mancherebbe, nessuna terracotta può compensare una carne, ma un segno, un aleggiare.
Adesso capisco tutte quelle parolacce, pur continuando a disapprovarle siccome le parolacce non le sopporto nemmeno quando, capita perfino a me, sono io a pronunciarle. Mi aggiro per le stanze del Castello più metafisico del mondo (primario fondale dechirichiano) e davanti a ogni Madonna mi ricordo un “Capra!”, davanti a ogni Cristo un’invettiva di “Sgarbi Quotidiani”, davanti a ogni Maddalena un “Vaffanculo!”, davanti a ogni Santo una sbroccata vista su YouTube.
Sgarbi, pur perfettamente a suo agio nella modernità mediatica, anche social, capovolge il metodo dell’arte moderna ovvero la dissacrazione, la trasformazione dell’oro in deiezione (vedi Duchamp, Piero Manzoni, Serrano, Cattelan…): lui al contrario trasforma l’oscenità in fondo oro, la volgarità in Rinascimento. Ed è molto più difficile. Orribili sconcezze hanno salvato dall’oblio e dai tarli le Vergini più eteree. Non si percepisca nessuna blasfemia in questo procedimento: Sgarbi è cattolico, sempre più cattolico proprio mentre il mondo circostante lo è sempre meno. Poco prima di Natale, al Teatro Regio di Parma, gli ho sentito dire sul presepe cose commoventi che non si sentono dai preti e meno che meno dai cardinali. Ed è sempre più filantropo.
Sarà l’avanzare dell’età, saranno i lutti (il padre Giuseppe è morto da pochissimo), il grande critico ormai pensa alle generazioni future e sempre più spesso, anche a Ferrara al discorso inaugurale, davanti alla sorella Elisabetta, molto implicata nell’organizzazione della mostra, al ministro Franceschini che è un amico di famiglia, al vecchio mentore Ricci, ricorda che il collezionista è solo un custode temporaneo, in attesa di passare la mano: “La caccia apparentemente egoistica ai capolavori è un tentativo di salvare dalla morte noi e loro”. Il bottino per cui si è speso e ha speso tanto (“Più di quanto potessi, sono pieno di buchi ma sono buchi pieni di opere d’arte”) vorrebbe lasciarlo alla città natale, magari proprio al Castello Estense. Fra cento anni delle parolacce televisive non sarà rimasto nemmeno l’eco e la Madonna del latte di Antonio Cicognara sarà ancora più bella.