Così dal risentimento antibuonista si è passati alla ferocia alla luce del sole
La barbarie verso le vittime spiegata da Nietzsche e René Girard
Nel macabro fotomontaggio di Laura Boldrini decapitata riaffiora l’iconografia del portrait du guillotiné, quel genere di stampe che circolavano in Francia ai tempi del Terrore: una testa recisa e gocciolante, un motto ammonitore per i traditori della patria. Ma la dichiarazione spaesata del divulgatore del fotomontaggio, un pacifico barbiere di mezza età della provincia di Cosenza braccato dalla polizia postale – “non saprei spiegare perché l’ho fatto” – suscita memorie perfino più antiche, le parole con cui Gesù, dalla croce, smascherò la falsa coscienza dei suoi persecutori, la cattiva fede della loro ferocia sonnambula: “Perdona loro, perché non sanno quello che fanno”.
Al lettore chiedo di perdonarmi, invece, se non so quello che scrivo, se il millenarista ubriaco che è in me va a sbattere a ogni angolo contro enigmatici Segni dei Tempi. Ma davanti a episodi come questo non riesco più a trattare le battaglie culturali pro e contro il “politicamente corretto” – di cui la Boldrini è diventata il fantoccio sacrificale, bruciato nel rogo leghista di Busto Arsizio – come faccende di bon ton, da sbrigare con una citazione da Robert Hughes, una freddura sarcastica e un buon aneddoto da cocktail. Dalle terrazze dell’arguzia mondana dobbiamo scendere giù nel sottosuolo, quel sottosuolo di risentimenti e di passioni vendicative da cui Nietzsche ci spedì la sua “Genealogia della morale” e su cui il più grande moralista dei nostri giorni, René Girard, edificò la sua antropologia apocalittica.
Vista da laggiù, la saga del “politicamente corretto” ci apparirà come l’estrema metamorfosi, o l’estremo pervertimento, di quella sollecitudine per le vittime con cui il giudaismo prima e il cristianesimo poi avevano rovinato il festino ignaro e feroce del sacrificio cruento, il “non sanno quello che fanno”. Una volta arrivata quella guastafeste della coscienza morale, i persecutori sanno bene quello che fanno, e sono messi davanti allo specchio della propria violenza. Il “politicamente corretto” voleva essere, tra le altre cose, la riscossa delle vittime di tutte le persecuzioni storiche. Ma le vie del risentimento sono tortuose, e può accadere che quelle stesse vittime diventino tiranniche, che pretendano di vantare un credito morale illimitato, perfino (è il caso, in queste settimane, della frangia più fanatica di #metoo) che scatenino campagne persecutorie in nome delle persecuzioni subite. L’egemonia del politically correct (che in Italia, si deve pur dirlo, non è mai esistita) prende in quei casi la forma di un ricatto morale permanente. E il ricorso, a volte anche gratuito, a una certa dose di scorrettezza politica è stata per alcuni, in questi anni, una via umoristica per sottrarsi al ricatto.
Da qualche tempo, però, le cose hanno cominciato a capovolgersi (da buon millenarista sarei tentato di scegliere come spartiacque epocale il trionfo americano della Bestia Arancione). Il politically correct è diventato il capro espiatorio di chi vuole rivendicare apertamente il proprio diritto alla barbarie. Ho avuto la cattiva idea di passare qualche ora su Twitter dopo la tentata strage di Macerata. Centinaia, forse migliaia di commenti avevano per bersaglio il “politicamente corretto”, il “buonismo”, le “anime belle”, le “maestrine” col “ditino alzato” e ovviamente Laura Boldrini, che tutto compendia. Questa non è gente che reagisce con le punzecchiature satiriche a una cappa ideologica opprimente. Questa è gente che combatte il “buonismo” perché vuole finalmente poter essere cattiva alla luce del sole. La confessione del tranquillo barbiere – “non saprei spiegare perché l’ho fatto” – si dovrebbe tradurre, evangelicamente, così: “Aspiro a una ferocia innocente”.
E’ una tentazione storica ricorrente. Parlando di Nietzsche e di quei suoi ammiratori un po’ grossolani che furono i nazisti, Girard evocava la “frenesia collettiva, che permette a esseri umani normalmente tranquilli di unirsi a una folla linciatrice, diventando quasi senza rendersene conto assassini”. La paragonava all’antica mania dionisiaca, e ne vedeva la più coerente prosecuzione moderna nei raduni nazisti a Norimberga e poi nei campi di sterminio. E io so bene che la reductio ad Hitlerum è una scorrettezza argomentativa, uno spauracchio che neppure un millenarista ruspante può permettersi di evocare se spera di esser preso sul serio. Ma è bene ricordarsi che quando i persecutori vogliono tornare all’Eden della barbarie innocente, schiacciano per prima cosa la serpe della morale. E nel vocìo assordante contro il “buonismo” che ci terrebbe incatenati, mi capita sempre più spesso di ripensare a quella frase di Hitler a Hermann Rauschning: “La coscienza è un’invenzione ebraica”.