Quando Keplero difese sua madre dall'accusa di stregoneria. Quasi un #MeToo
Le fake news, i "mi ricordo vent'anni fa", le suggestioni popolari
Il 29 dicembre 1615 un messaggero bussa alla porta di Johannes Keplero, già matematico di corte dell’imperatore Rodolfo II, ora docente a Linz, impegnato nella stesura delle opere che rivoluzioneranno l’immagine del sistema solare. Porta una lettera dalla sorella: la madre, Katharina, è stata accusata di stregoneria. Data la notorietà del personaggio coinvolto, quello che segue è “uno dei processi per stregoneria meglio documentati della storia tedesca”. Lo racconta Ulinka Rublack, docente di storia a Cambridge, specializzata in studi sulla Riforma e sulla condizione femminile nella prima età moderna nel suo “L’astronomo e la strega”, pubblicato da Hoepli (356 pp., 29,90 euro). Una dettagliata ricostruzione del procedimento, resa possibile dall’abbondanza di fonti, mostra come giustizialismo e garantismo, fake news d’altri tempi e “mi ricordo che vent’anni fa”, beghe personali e rigore giuridico non sono un’esclusiva del XXI secolo. Per gustare meglio la vicenda, ci vole un po’ di contorno. Le accuse di stregoneria, all’epoca, non erano rare, anche se non c’era l’ossessione che certe ricostruzioni tramandano. Era un mondo in cui la conoscenza delle piante a scopo curativo e la credenza dell’esistenza di un nesso fra mondo naturale e influssi astrali erano diffusi universalmente: Sibilla, vedova del signore del luogo, il duca del Württenberg, aveva aperto a Leonberg, la cittadina dei Keplero, una farmacia dove preparava con le sue mani infusi e pozioni; le donne si tramandavano di generazione in generazione i segreti delle erbe, e in ogni città o villaggio c’era la curatrice a cui tutti si rivolgevano; lo stesso Keplero era convinto dell’influenza degli astri sulle vicende umane, anche se riteneva che molto spazio restasse comunque alla libertà degli individui. In questo mondo che conviveva col soprannaturale e col magico in modo tutto sommato tranquillo, le ondate di panico nascevano perlopiù in circostanze particolarmente negative: guerre, pestilenze, carestie facilmente sconfiggevano lo scetticismo verso delle streghe predicato da Lutero e le garanzie legali con cui erano normalmente condotti i processi e il campo era conquistato da superstizione e fanatismo.
Così fu per Katharina: la vicenda ebbe inizio durante un inverno particolarmente duro, che peggiorò notevolmente la vita del paese e alimentò l’inclinazione a cercare un capro espiatorio; il primo a dire “è una strega” fu un figlio scapestrato, perché la madre non si piegava ai suoi capricci; l’accusa fu rilanciata da una vicina di casa, Ursula, che attribuiva a un intruglio bevuto a casa di Katharina l’origine dei suoi dolori; si sviluppò negli anni successivi mentre iniziava la guerra dei Trent’anni, che portò nella regione scompiglio e timori.
In questo clima inquinato, le dinamiche della “caccia alle streghe” di ogni epoca trovarono terreno fertile. La prima mossa fu una convocazione improvvisa, irrituale, senza avvocati, con la minaccia di spaventevoli torture se l’accusata non avesse confessato (per fortuna ai tempi nostri non si usano più gli arresti a sirene spiegate alle quattro del mattino, la carcerazione preventiva a scopo intimidatorio, la scarcerazione offerta in cambio di chiamate in correo), e solo l’intervento dello stimato astronomo presso chi di dovere riuscì a riportare il procedimento su binari più corretti. L’avvio del processo suscitò quindi uno splendido #MeToo ante litteram: il maestro si ricordò che dieci anni prima Katharina l’aveva chiamato a casa sua perché le leggesse una lettera del figlio, gli aveva offerto del vino e da quel momento lui aveva avuto dolori alle gambe; una donna raccontò che una giovane sarta che aveva alloggiato da Katharina aveva riferito di aver visto frau Keplero alzarsi da terra nella sua stanza da letto; i legali di Ursula comunicarono che una zia di Katharina era stata arsa come strega anni addietro; una vicina ricordò che un vitello si era ammalato ed era morto dopo una visita di Katharina a casa loro; e così via. Nel frattempo il tempo passava: dalla prima notifica erano trascorsi cinque anni, e negli ultimi mesi Katharina era stata rinchiusa sotto sorveglianza in una stanza del municipio, naturalmente a sue spese (per fortuna che oggi i processi non durano più così a lungo, e non incidono sulle finanze degli accusati).
L’unico in grado di farsi carico della difesa di Katharina fu il figlio Johannes. Trasponendo al campo giuridico l’abitudine al ragionamento rigoroso e alla discussione implacabile degli argomenti avversi che aveva maturato nel dibattito scientifico, costruì una memoria difensiva che mostrava punto per punto la fragilità delle accuse: la donna del vitello aveva, all’epoca dei fatti, sette anni: si poteva credere alle sue parole? Come si chiamava la zia strega di Katharina, quando e dove esattamente era stata bruciata? Nessuno sapeva rispondere. Il maestro una volta aveva affermato che aveva cominciato a dolergli la gamba destra, un’altra volta la sinistra: era un testimone affidabile? Eccetera.
Alla fine, l’incartamento passò ai dottori dell’università di Tubinga, una sorta di Corte di Cassazione dell’epoca. I dotti giuristi erano eredi di una solida tradizione garantista, e sposavano la dottrina dei colleghi teologi che suggerivano di trattare i casi di stregoneria con grande prudenza: riconobbero la scarsa attendibilità delle testimonianze, e il risultato fu quello che oggi chiameremmo un’assoluzione per insufficienza di prove. Caccia alle streghe e creduloneria contagiosa vs metodo scientifico e civiltà giuridica, insomma: una battaglia sempre aperta, no?