Giallo romano
Due omicidi in una Città eterna bella e perduta. Enrico Vanzina dal cinema al romanzo, in compagnia di certi carissimi fantasmi
Che Enrico Vanzina, uno degli sceneggiatori di successo del cinema italiano di oggi, avesse una vena romanzesca era noto. Bastava leggere il suo libro di memorie, i ricordi del padre, Steno, lo sceneggiatore preferito di Carlo Ponti, il regista indimenticabile di Guardie e ladri, Un giorno in Pretura, Un americano a Roma, al quale la Galleria nazionale ha dedicato l’anno scorso una bellissima mostra. I più distratti avevano a disposizione la rubrica settimanale del Messaggero, dove Vanzina, cronista di costume, conferma le sue doti letterarie. Ma che avesse anche il fiato del narratore in grado di tenere il lettore avvinto per duecento pagine e sul chi vive, con una trama semplice e piena di colpi di scena, dove pullula una serie di personaggi che si agitano come se fossero in carne e ossa, premendo sulla pagina per uscire fuori, e cominciare a vivere la loro vita reale, muovendosi, parlando, camminando fra di noi, è la scoperta del suo ultimo libro, La sera a Roma, un romanzo pubblicato da Mondadori (190 pagine, 18,50 euro).
Ha il fiato del narratore in grado di tenere il lettore avvinto per duecento pagine e sul chi vive, con una trama piena di colpi di scena
Il libro ha la forma e la struttura di un giallo. Federico, sceneggiatore romano, età indefinita, sposato con un’amatissima Pamela, americana, ex scrittrice, molto tosta, autonoma e determinata, che lo lascia temporaneamente per soccorrere a Boston il fratello abbandonato a sua volta dalla moglie, ha funzione di io narrante. Trattasi di un cinematografaro un po’ superficiale, sempre a caccia di idee per i suoi copioni. Pressato come tutti dalla mancanza di soldi, dalla fretta con cui soddisfare il produttore, è un tipo simpatico che collabora come giornalista con il Messaggero, dove scrive di costume. E’ un uomo colto, spiritoso, e vive in una nuvoletta tutta sua dove ancora echeggiano i detti di Leo Longanesi e le battute di Ennio Flaiano. Abita in un villino liberty in via Pompeo Magno, una strada elegante nel quartiere Prati che sfocia sul Tevere in piazza della Libertà. Gira a piedi per la città, camminando ogni giorno dal ponte Margherita, lungo il lungotevere di Ripetta, sino a piazza in Lucina, per risalire a Prati da ponte Cavour. E’ soprattutto un invasato di aristocrazia, un patito di gentildonne, anche se decadute e un po’ puttane, con le quali intrattiene sin dall’infanzia rapporti amichevoli, sebbene sia sempre desideroso di maggiore intimità. Agli artisti, agli attori, ai produttori, agli assistenti alla regia, al suo mondo di cinematografaro preferisce infatti quello dei nobili, dei nobilastri, del nobilume decaduto, e dell’alta società o presunta tale, che l’invita a cene luculliane, feste e ricevimenti in palazzi délabrés, ma di sicuro fascino. Pur essendo innamoratissimo della moglie americana, dopo una ventina di pagine scopriamo che, non si sa perché, anzi “perché mi piace, mi diverte”, ha anche un’amante venezuelana, una certa Claudia, 39 anni, ex attrice convertita all’aerobica con palestra ai Parioli, che presenta così: “Parafrasando P. D. James, si poteva riassumere con due sole parole: culo e simpatia”. Da anni, Federico l’incontra ogni settimana in un alberghetto sulla Nomentana. Molta ginnastica, e niente amore, insomma. “La vita è così”, spiega al Foglio Enrico Vanzina. Ma tra i due le cose si complicano quando, colpo di scena, avviene il primo dei due delitti del giallo, commesso entro le prime dieci pagine ai danni di un aitante ragazzotto pugliese, tal Domenico Greco, in cerca di gloria nel mondo del cinema.
Federico, che vive in questo romanzo come se fosse dentro un acquario, come se stesse dentro un film, alle prese con la sceneggiatura e le battute da far fioccare sulla bocca degli attori, salvo ritrovarsi a dover fare i conti con una realtà ben più dura e violenta del mondo di celluloide, è stato l’ultimo a incontrare il ragazzo prima che venisse assassinato.
L’aveva trovato un tipo supponente e pieno di sé, un aspirante attore pieno di pretese, ma privo di talento. Perché l’aveva incontrato? Per compiacere un certo Roberto Bassani, conoscente altolocato che glielo aveva raccomandato, come figlio di un amico leccese, grande produttore di olio e vino. Federico s’era convinto sin da subito che Bassani mentiva, sapendo di mentire. Ricchissimo e misterioso finanziere, ebreo, mondanissimo ma riservato, elegantissimo, ma a modo suo brutale, costui è un grande collezionista di arte contemporanea, attico a piazza di Spagna in stile minimalista, pavimenti di tek, pareti grondanti di Rothko e Jackson Pollock, biblioteca con edizioni provenienti dal mondo intero, l’aveva invitato a cena sulla sua terrazza alle pendici del Pincio. Ma, sorpresa, la cena era un tête à tête, organizzato al solo scopo di intercedere per il ragazzo. Segue una ridda di sospetti che lambisce il Bassani e la mezza dozzina di personaggi della sua cerchia, con intreccio sensazionale che avvolge il possibile mandante, l’assassino e le sue vittime (diventate nel frattempo due), nelle spire di un eros impellente, privo di inibizioni, indifferente al genere, mai esclusivo e perciò devastante.
Più che dalla sua coscienza di sceneggiatore inappagato, a volte sembra farsi guidare la mano dal genio malinconico e feroce di Proust
L’allegro carnaio è al centro dell’inchiesta giudiziaria affidata a un poliziotto intelligentissimo, ma lento come un motore diesel. Se non fosse per la lieve punta di razzismo, il commissario Margiotta potrebbe apparire un parente alla lontana del gaddesco Ingravallo: “Era un massiccio cinquantenne meridionale, dall’aria mite, che si portava addosso le stimmate di quel profondo Sud, che esporta intelligenza, ma conserva con tenacia il marchio d’origine. Agricoltura inurbata. O al massimo piccola borghesia elevata alle magistrali”. Margiotta dispone la detenzione di innocente a scopo cautelare, il che prelude a un’altra cascata di colpi di scena che si susseguono ogni due tre pagine con straripante fantasia, sino a stringere il cerchio dei colpevoli in nome del movente passionale – “perché i moventi di un omicidio sono sempre quattro, amore, lussuria, denaro e odio, ma il più temibile è l’amore” spiega il commissario. Ma la soluzione del caso avviene, come insegna Edgar Poe, grazie al dettaglio rivelatore che permette di ricostruire il puzzle in ogni sua tessera, dando al tutto una piega di catarsi dopo aver superato l’ipotesi della responsabilità del marchese Cafiero d’Aragona, simpatico dandy completamente spiantato, che riecheggia Pupetto Sirignano di Caravita, ridotto ai verbi difettivi tanto da lesinare persino sulla luce nel suo appartamentino al Pantheon.
“Ho impiegato otto anni per scriverlo, e devo confessare che io stesso ho trovato la soluzione del giallo solo a metà”, confessa Vanzina, e gli crediamo. Pur essendo un giallo, il libro suo ha tante di quelle venature autobiografico-saggistiche da apparire subito molto di più che un semplice script pronto all’uso per la confezione di una nuova serie tv di successo, o il canovaccio per il prossimo cinepanettone con record di incassi. Per essere il frutto di uno sceneggiatore di successo, patito di Dashiell Hammett e Ray-mond Chandler, è un libro pieno di poesia. Fra le righe, infatti, spunta fuori la confessione forse involontaria di uno scrittore in cerca di riscatto, che lascia da parte il cinismo del cinematografaro per mettersi finalmente a nudo, per esporsi ai lettori come un San Sebastiano trafitto dalle sue stesse ferite, che sono i suoi tic, le sue nevrosi aspirazionali, i complessi di inferiorità, le debolezze segrete verso un mondo ritenuto incantato, ma in fondo marcio, tutto preso da un’ansia di apparire, da una mania di grandezza, che ha perso ormai la sua ragion d’essere. A volte Vanzina, più che dalla sua coscienza di sceneggiatore inappagato, sembra farsi guidare la mano dal genio malinconico e feroce di Marcel Proust, che da vecchio alunno dello Chateaubriand continua a venerare e che gli ispira un mini romanzo del tempo e della memoria, con cui ricamare per mimesi la decadenza della Città eterna, bella e perduta, o quell’inutile malattia dello snobismo che si insinua come un cancro fra le dimore senescenti dei palazzi romani, dove il passato splendore scolorisce e cede al rampantismo marchettaro del presente.
E poi c’è la lezione dei grandi maestri di Vanzina, che furono anche maestri e amici di suo padre Steno: i frondeur del fascismo e dell’antifascismo come Leo Longanesi, che appare sin dall’incipit per dare il la con una sua famosa battuta “Vissero infelici perché costava meno”. Ci sono i moralisti venati di cattolico senso di colpa come Ennio Flaiano, che un tempo con Sandro De Feo, Mino Maccari e Renato Guttuso frequentava il Caffè Greco, meta adesso solo di “smutandati stranieri” , e torna in mente con un altro suo motto di spirito – “le isole pedonali hanno un difetto di origine, se ne vanno le automobili e irrompono i pittori” – rievocato durante una sosta notturna del narratore in piazza San Lorenzo in Lucina.
Un uomo colto, spiritoso, che vive in una nuvoletta tutta sua dove ancora echeggiano i detti di Longanesi e le battute di Flaiano
E soprattutto ci sono i padri della commedia all’italiana, i mostri sacri del cinema del dopoguerra, che in questo giallo autobiografico dove il tempo non è quello reale, ma quello del sogno, dei ricordi, del desiderio, respirano ancora come vivissimi fantasmi. Dino Risi appare in presa diretta nel suo scarno appartamentino in via Aldrovandi, pieno di foto di Chaplin, Einstein e Toscanini, attaccate male alle pareti, sempre incarognito e solitario, ma geniale nei consigli allo sceneggiatore: “Federico, il cinema non è una cosa tanto complicata. Bisogna portare sullo schermo dei sentimenti sinceri, meglio se sono sentimenti seri, raccontati in maniera buffa”. Carlo Lizzani, è molto anziano, ma ragiona con la velocità di un quarantenne, ma si getta nella tromba delle scale nel palazzo in via dei Gracchi, alla vigilia della visita di Federico, che avrebbe voluto affidargli al regia del suo nuovo film prodotto da Aurelio De Laurentiis, per il quale ha penato non poco durante i mesi della summer moisture caraibica che ormai attanaglia l’estate romana. E poi c’è Monicelli, altro illustre suicida, anche lui solitario e feroce, che prima di morire detta l’epitaffio che avrebbe voluto sulla sua tomba: “Non andò mai alle Maldive”. La battuta viene in mente al narratore quando il produttore De Laurentiis, cancella all’ultimo momento la cena di Natale, avendo deciso di partire per le Maldive.
Molti altri personaggi della Roma contemporanea s’aggirano fra i protagonisti del giallo, spuntando fuori all’improvviso coi loro nomi e cognomi, come se Vanzina o il suo alter ego letterario sentissero l’urgenza di un omaggio speciale. C’è Mario d’Urso, ultimo viveur cosmopolita italiano, gran signore impareggiabile per l’eleganza, lo stile, i riti mondani, le parole e i pensieri, scomparso anche lui dopo gli Agnelli, gli Olivetti, i Mondadori, i Caracciolo, i Visconti che segnarono un’epoca. C’è l’avvocato romano Carlo Longari, quarantenne lucido e agguerrito, che nella vita è anche il penalista di Vanzina, e nel romanzo assiste Federico, prima consigliandogli di presentarsi subito alla polizia per confessare tutto, e poi fornendogli la via d’uscita per svicolare dal sospetto e salvare dalla galera la sua amante venezuelana Claudia Perez, maestra di Pilates. E c’è persino Pietro Calabrese, il direttore del Messaggero, che offre una collaborazione allo sceneggiatore-io narrante e ne diventa amico, prodigo di consigli, ma sempre riservato, al punto da inventarsi una guarigione di sana pianta dal brutto male che l’ha colpito, solo per non angosciarlo troppo. “Un gigante”, commenta Federico alias Vanzina. E infine c’è il regista Calopresti, al quale De Laurentiis pensa di affidare la sceneggiature del nuovo film di Federico: proprio Mimmo Calopresti da Polistena, “semplice e profondo”, come come solo i calabresi doc, certe volte, sanno esserlo.
Tutto queste incursioni nella realtà a partire dalla finzione rendono il giallo di Vanzina un libro incantevole, da leggere su più registri, quello del thriller, del saggio, dell’autobiografia, tanto i confini sono mobili e i passaggi sempre perfettamente oleati nel concatenarsi degli eventi che formano la trama.
Preferisce al suo mondo di cinematografaro quello dei nobili, del nobilume decaduto, e dell’alta società o presunta tale
E’ vero che leggendolo, la prima cosa che uno si immagina è il casting per il grande schermo: anche se forse è troppo gentile, Kim Rossi Stuart andrebbe benissimo nel ruolo di Domenico Greco, l’aspirante attore, il prepotente dalla torbida via sessuale, che sotto le lenzuola inanella ogni sorta di perversione senza badare né al genere, né al rango, né all’età. Nel ruolo dell’amica dell’io narrante, alias Lavinia Orsato della Torre, aristocratica per scelta, ma non di nascita, brillantissima ma affetta da insicurezza per la declinante bellezza, andrebbe benissimo Ilenia Pastorelli, se solo potesse limitare il romanesco a poche scene intime. In quello della cugina del di lei marito Annibale, alias la cattivissima Domietta Ortari, che invece è ricca e nobile di origine, si intende di arte, parte spesso per l’India, ma ha dentro di sé una ferita insanabile, fungerebbe benissimo Kristin Scott Thomas, da sempre stimata per i ruoli di innamorata maniacale e sconfitta. Più difficile trovare un volto al finanziere Roberto Bassani, forse la malinconia di Fabrizio Gifuni, o la perversione di Fabrizio Bentivoglio, andrebbero bene per questo signore elegantissimo e misterioso, vagamente omosessuale, ma anche no, dall’esistenza piena di segreti e forse di raggiri, mente diabolica, ma cuore a pezzi, come si evince quando lo si scopre in lacrime sulla tomba di Domenico Greco. Infine, se Vanzina volesse cimentarsi oltreché nel romanzo anche nella recitazione, potrebbe candidarsi per il ruolo del protagonista Federico, e così chiudere il cerchio. In fondo ha tutte le carte in regola per farlo: anche lui vive a Roma, anche se in centro, anche lui osserva la città nel suo torpore e nel suo magnifico declino, dipingendola nei colori caldi dei tramonti di Carlo Quaglia, con le tinte morbide della luce che si dissolve, e i tratti lievi e sincopati del realismo magico. Anche lui è un osservatore, un sognatore, un dandy mondanissimo e però deluso. Vive scrivendo film, cercando le battute, i tagli, i piani di ripresa, proprio come il suo doppio che a poco a poco finisce per interrogarsi sul senso dell’esistenza, sul senso vero della vita. E alla fine, ritrova la sua roccia americana, la moglie perfetta, forte e solidale, la insegue a Boston, l’implora, la convince a tornare. Non per niente, alla fine Vanzina, riecheggiando il famoso Madame Bovary, c’est moi di Flaubert, lo ha pur detto: “Federico, c’est un peu moi”.