Curare le parole è curare il pensiero
Bisogna imparare come non scrivere. Il nuovo saggio di Claudio Giunta sulla lingua che usiamo
Nonostante siano passati vent’anni, ricordo ancora il momento in cui lessi per la prima volta un sms di mio padre. Uscivo da un supermercato e all’improvviso mi pigolò una tasca. Posai le sporte, sfoderai l’utensile assiro, aprii la bustina-icona sullo schermo e mi trovai davanti agli occhi una frase dotata di principale, subordinata con anacoluto, virgole a casaccio e un sovrannumero di puntini di sospensione come scaricati da una sparachiodi. Dolente epifania: davvero mio padre pensava con quella punteggiatura? Poi, un lampo retrospettivo: era lo stesso uomo che nella mia classe delle elementari, per il ciclo “genitori che raccontano il proprio lavoro”, si era espresso con formule arzigogolate mentre la maestra annuiva compiaciuta? Se sì, aveva una doppia lingua? Perché?
Secondo ricordo. Ottobre 1987. Il programma era “Fantastico”, Rai Uno. Durante la terza puntata ecco che l’enigmatico conduttore Adriano Celentano – chiaroveggente delle masse proto-grilline, pazzerello in Cristo, Ned Ludd taumaturgo – afferra un gessetto e su una lavagna verga la scritta “La caccia e contro l’amore”, dimenticando, chissà se di proposito, chissà se per beffa, l’accento. Correva l’anno dei miei undici anni e io ero inchiodato al divano: come accidenti era possibile? Un uomo, un adulto, “un signore della tv” incappava in una marronata ortografica che la signorina Tonarini Graziella – agra di nubilato, facinorosa castiganocche della mia educazione primaria pre Crepet – avrebbe sanzionato con una secca bacchettata? Poi, secoli dopo, cioè domenica 4 febbraio, ho letto un editoriale che lo stesso Celentano ha inviato al Fatto, la cui lettura consiglierei caldamente nel caso si voglia imparare a scrivere un testo squadernato, brillante per sgangheratezza e impeto, non certo per rigore ragionativo. Difficile perfino affermare che partisse da una pur bislacca tesi, trattandosi di uno strale contro Sgarbi (ribattezzato “Sgarbis”) condotto con ineffabile criterio. Era un trillo ultraassertivo, una discesa senza freni, un saggio di sconsideratezza.
1987 – 2018. Trent’anni, e in mezzo la Grande Disintermediazione. Sì, ma prima? Non minori guai, si direbbe, anzi, al contrario, gli svoli e i melismi dell’antilingua insegnata nelle aule, quella sviolinante dei “vi sono” anziché “ci sono”, di “evento fieristico” per dire “fiera”, di “esemplificazione” al posto di “esempio” – insomma, tutto lo scolastichese burocratese erogato dalle professoresse-ziette coi capelli azzurri e dagli appuntati di questura, l’italianone enfatico e sleale da scartoffia o da tema ministeriale (“da elaborato”) trafitto da Italo Calvino in un articolo del 1965 per il Giorno e colpito al cuore nella sua fasullaggine grandiloquente. “Fa freddo nella Storia” recita un bellissimo verso di Caproni, gran maestro di sintesi. Ma sullo stato della Lingua splende il sole?
Claudio Giunta, contrariamente a Giorgio Caproni nella poesia “Proposito”, non vuole andarsene. Al contrario, resta e insiste: dantista e secchione per autodefinizione, insegna Letteratura italiana all’Università di Trento e scrive saggi, condirige riviste salienti, usa Twitter con ammirevole misura e più ammirevole punteggiatura, e col suo ultimo “Come non scrivere” – consigli ed esempi da seguire e trappole da evitare quando si scrive in italiano (Utet, 328 pagine, 16 euro) ci consegna un testo ricchissimo, di labranchiana ibridazione, in cui ragiona con autorevolezza, umorismo e senza l’arroganza del Detentore né la labilità dell’Intrattenitore, su che cosa sia la lingua e su come la trattiamo. Apprezzabile il fatto che metta subito le mani avanti e confessi di essere caduto per primo in alcuni degli equivoci di cui parla, quando scrive: “Anch’io ero convinto che per parlare bene occorresse parlare scelto”, il che è raro e quasi emozionante perché fa sentire il lettore come un malato non grave davanti a un dottore che ammette di aver fumato due pacchetti di sigarette al giorno per anni e anni. Quindi punta dritto alle parti molli, alle banalità e alle ipocrisie della lingua percepita, prende per il bavero il liceo classico quando non fa bene il suo mestiere (cioè quando propone la lettura di Primo Levi e Italo Calvino e rinuncia a insegnarne la dote principale – la scarna precisione), procede spedito e antisettico, e più procede più si affila, in vertiginoso climax critico man mano che si cala nell’abisso linguistico sbugiardando vecchie abitudini, la più malefica delle quali – tipicamente italiana – è considerare con sospetto ogni forma di pensiero implicato con l’esperienza e con le quotidiane circostanze della vita. E’ per questo, dice Giunta, che la mediazione culturale allude e non argomenta, perché si autoelegge culto misterico e sceglie la strada ermetica e oracolare a dispetto di quella comunicativa.
Ma il libro non è solo analisi, vanta ben altro: imprevedibili insenature e chiose, ricordi personali e liete escursioni, è il grande romanzo collettivo della lingua in uso. Nelle parti più manualistiche non cede al semplicismo dello schema, dei “cento modi per” o, peggio, all’omelia del Padre della Patria linguistica, ma spiccia esempi e si appiglia a svariati pretesti per divagare e porsi domande, e mentre fa volare le pagine riesce a trasformarsi nell’autobiografia inevitabile di ciascuno, obbligando il lettore, pagina dopo pagina, a verificare le proprie abitudini espressive. Ed è davvero impossibile non vedersi ritratti in almeno una delle foto di gruppo con tortuosità sintattica e lessico fesso, impossibile non ridere (o non sanguinare, dipende dal vostro codice etico) ripensando a quella volta in cui, disperati ma consapevoli, non avevamo nulla da dire eppure l’abbiamo detto lo stesso, tonfando nel ridicolo proprio mentre credevamo di averla data a bere. Così le osservazioni si accumulano, traggono forza le une dalle altre e alla fine costruiscono una visione comica e critica del rapporto tra parole e realtà: ovviamente molto specifico, ovviamente molto italiano.
“Perché l’Italia, paese povero, stampa biglietti da mille così grandi?”. Alberto Savinio aveva capito tutto della nostra retorica: la sproporzione è il nostro destino, amiamo le concioni del tribuno e cadiamo ai piedi dell’italianorum della pompa magna. Perfino mio padre, chiamato a parlare a un pugno di scolari, aveva sentito il premere dell’urgenza lirica e del fregio linguistico, orpelli cui rinunciava volentieri nello scrivermi un sms. Sarei pronto a giurare che in quell’auletta avrà parlato più a lungo di Abramo Lincoln durante il discorso di Gettysburg, uno dei più famosi della storia americana e che, ci ricorda Giunta, conta 283 parole firma compresa.
L’autore non si sottrae nemmeno alla Grande Domanda Definitiva: una volta si scriveva meglio? E risponde sì, perché si scriveva meno. E non si stanca di ribadire che curare le parole significa curare il pensiero. Tuttavia – ammonisce Giunta – non bisogna abbandonarsi all’allarmismo o al moralismo, perché ogni epoca ha prodotto insopportabili locuzioni alla moda, tic espressivi, transitori inverni della lingua. E peggiori di quelli che usano “attimino” sono quelli che si indignano per l’uso di “attimino”: dovendo scegliere (ma auguratevi che non succeda) meglio stare tra i primi che tra i secondi.