Gillo Dorfles, 107 anni di felice lotta contro il Kitsch
Il sovrano dell'eclettismo che si è elevato sulle masse di pessimo gusto
Il grande Gillo è morto. Sembrava ci potesse seppellire tutti: due anni fa aveva seppellito Tommaso Labranca, mesi fa ha seppellito Mario Perniola, per citare due potenziali eredi che, pur potendo essere suoi figli o addirittura nipoti, non sono riusciti a succedergli. Ma alla fine la biologia ha prevalso e oggi scrivo al passato del grande estetologo che mi pareva già molto vecchio all’alba dei Novanta, quando lo incontrai per la prima volta, nella sua casa milanese di piazzale Lavater (vicino corso Buenos Aires) per un’intervista. Mi sembrava di conoscerlo già, siccome anni prima una mia donna, nella libreria del Teatro a Reggio Emilia, aveva preso dal banco un suo libro esclamando “Gillo!” come se fossero amici intimi.
Era inevitabilmente (vista la distanza geografica, professionale, anagrafica) name-dropping eppure quella frivolezza mi servì a capire la potenza del nome raro. Nel mare magnum editoriale chiamarsi Paolo o Francesco è una iattura, chiamarsi Camillo va bene, chiamarsi Gillo va benissimo: improbabile la confusione con Gilles Villeneuve o Gillo Pontecorvo. Fu il primo dei suoi numerosi insegnamenti, tutti all’insegna di un certo snobismo o, se preferiamo chiamarlo così, elitismo. Speciale era anche il cognome, derivante dall’austriaco Hermann Dörfles arrivato nel Settecento a Gorizia per farvi il magistrato e fondare il benessere della schiatta. Tutti gli elementi anagrafici, nessuno escluso, contribuivano a elevarlo sulle masse di pessimo gusto: pure il luogo di nascita, Trieste.
Dorfles viveva a Milano da novant’anni (sì, dal 1928, fece in tempo ad andare in barca sul laghetto di San Marco) eppure godette per sempre del carisma finis Austriae che la città giuliana conferisce, o forse conferiva, ai suoi abitanti. Fosse nato a Taranto non gli sarebbe capitato di giocare a bocce con Italo Svevo e di parlare in dialetto con Umberto Saba. Ma questi sono dati biografici inimitabili. Imitabili sono il suo sovrano eclettismo, la sua inesausta curiosità, la sua eterna giovinezza intellettuale. L’insegnamento universitario fu qualcosa di laterale, non sembrava un professore, la sua autorevolezza non si basava su titoli e pennacchi e comunque era laureato in medicina, non in estetica. Aveva fatto un po’ lo psichiatra così come aveva fatto un po’ il pittore. Aveva fatto un po’ anche il poeta e questo lo sanno in pochissimi perché la poesia non interessa a nessuno. Pubblicò versi negli anni Quaranta e negli Ottanta ed erano poesie pornografiche (l’aggettivo è suo, pronunciato in piazzale Lavater per non usare l’ipocrita “erotiche”).
Qualche titolo: “Il culo bianco”, “Mammelle in volo”, “Gocce di sangue mestruale”... Al di là del contenuto, poesie non indispensabili, così come non indispensabili sono i suoi quadri astratti: il Gillo grande era il critico, non l’artefice. Dorfles è stato innanzitutto l’autore de “Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto” col quale importò (dalla Germania), sistemò e ampliò un concetto che giustamente ebbe fortuna. Grazie a quel libro mi divennero inguardabili il turismo, i soprammobili, le sette, i mobiletti, e seppi che l’estetica svela l’etica. Il capitolo sul Kitsch religioso è alla base della mia crociata contro le candele elettriche: non un innocuo squallore bensì “una colossale perdita di sostanza teologica”. Compensava il sottile avanguardismo con un abbigliamento borghesissimo (in piazzale Lavater mi ricevette in cravatta e abito completo).
Era un edonista e gli piaceva il vino rosso, specie il Cannonau e l’Aglianico del Cilento che l’azienda agricola San Salvatore gli ha dedicato perché andava in vacanza da quelle parti. Fino alla fine ossia fino a 107 anni si interessò di arte, design, architettura (stroncò il Bosco Verticale definendolo “una trovatina”): leggendo, scrivendo, andando alle mostre, a Biennali, Triennali… Il grande Gillo è morto ma ci ha lasciato il segreto di una clamorosa longevità intellettuale: “E’ importante avere interesse per quel che è nuovo. A una certa età c’è l’abbandono dei coetanei: ci si avvicina più ai giovani”.