Al Palazzo delle Esposizioni in mostra il futuro della nostra specie

Fino al 1 luglio a Roma è possibile visitare “Human+” con le opere di artisti, designer e scienziati riconosciuti a livello internazionale per il loro lavoro di esplorazione delle connessioni tra arte e scienza

Maurizio Stefanini

Mostra di scienza o mostra di arte? Al Palazzo delle Esposizioni di Roma, fino al primo luglio, è possibile visitare “Human+”, esposizione concepita e presentata per la prima volta da Science Gallery presso il Trinity College di Dublino, che rifiuta programmaticamente di inquadrarsi. “Il futuro della nostra specie”, è il sottotitolo della mostra. L'idea è proprio quella di permettere ai visitatori di intraprendere un viaggio nel futuro dell'umanità, lasciandosi interrogare da artisti, designer e scienziati riconosciuti a livello internazionale per il loro lavoro di esplorazione delle connessioni tra arte e scienza. E che, nelle loro opere, cercano di far percepire le implicazioni, sociali e non solo, delle tecnologie passate ed emergenti.

 

Ecco allora un'immagine di Howard Schatz che ritrae, come si trattasse di un'installazione, Aimée Mullins. La donna, nata senza entrambi i peroni, fin da piccola con delle protesi. Nel 1996, grazie a delle protesi in fibra di carbonio modellate sulle zampe posteriori del felino, Aimée è riuscita a partecipare ai Giochi Paralimpici di Atlanta. Il design innovativo di questi arti artificiali che sembrano quasi un'opera d'arte ha scatenato un dibattito che, anni dopo, ha contagiato anche il mondo della moda quando la ragazza ha esordito sulle passerelle londinesi, seducente modella per lo stilista Alexander McQueen.

 

Il Casco deceleratore di Lorenz Potthast è invece, come punto di partenza, un’opera d’arte. Artista che gioca con i media digitali come nuovo mezzo di espressione, Potthast ha cercato di costruire uno spazio di meditazione in cui la percezione personale fosse separata dal ritmo temporale normale. Ma per riuscirci ha dovuto studiare un complicato marchingegno tecnologico, con il piccolo computer collocato all’interno del casco che processa i segnali provenienti da una videocamera e da un microfono esterni e proietta le immagini rallentate su un display collocato all’altezza degli occhi e simultaneamente su un monitor montato all’esterno del casco. Il messaggio sembra appunto essere che l’immaginazione dell’artista è altrettanto importante della capacità dello scienziato, per riuscire a decifrare questo futuro.

 

Forse sarà un incubo, ci suggerisce la parete di occhi robotici che si ripromette programmaticamente di turbare lo spettatore nell’Area V5: Robotica sociale interattiva di Louis-Philippe Demers. Forse sarà semplicemente diverso, stando al laboratorio robotico ricostruito in Versione umana 2.0 di Yves Gellie. Se ci saranno sconvolgimenti ambientali, Laura Allcorn propone comunque pragmaticamente un ipotetico kit di strumenti per sostituire le api in caso di loro estinzione: Progetto di impollinazione umana. Anthony Dunne e Fiona Raby immaginano invece una nuova umanità di Foraggieri in grado di ricavare sostanze nutritive dall’ambiente urbano attraverso una combinazione tra biologia sintetica ed apparecchi meccanici ed elettronici. Agatha Haines nelle sculture di neonati delle sue Trasfigurazioni propone addirittura cinque diverse maniere per intervenire chirurgicamente alla nascita, in modo da rendere il bambino più in grado di sopportare il calore attraverso un sistema di pieghe cutanee. O più capace di assimilare la caffeina grazie a guance più gonfie. O più adattato a assumere medicinali attraverso uno sfintere nella nuca, mentre la mutilazione di un dito del piede potrebbe prevenire l’asma.

 

Ci sono poi le bambole scacciapensieri semiviventi: ispirate alle tradizionali muñecas quitapenas del Guatemala, ma fabbricate a mano con polimeri biodegradabili e suture chirurgiche in cui vengono poi introdotte cellule viventi. Insomma, molte tra la quarantina di opere esposte ci ammoniscono su ciò che potrebbe essere. Installazioni, film, sculture, fotografie, realizzate da alcuni dei più importanti artisti, designer e scienziati .

 

Molte delle cose in mostra, però ci informano su cose che ci sono già. In Capacità Aumentate, la prima parte del percorso, c’è ad esempio il Programma Fablab per protesi a basso costo. O il Progetto per Arti Alternativi con cui Sophie de Oliveria Barata inserisce in una gamba artificiale dei cassettini o un impianto stereo. Per non parlare di quel Neil Harbisson che non riuscendo a distinguere i colori si è fatto mettere nel cranio un’antenna per percepirli in forma musicale, in modo da poter ottenere dal governo di Londra un riconoscimento ufficiale di cyborg. Mentre il documentario di Niko von Glasow fa esibire con orgoglio i corpi nudi di dodici persone con gli arti deformati dal talidomide.

 

In Incontrare gli altri, seconda parte, ci sono i robot ribelli che Heidi Kumao ha messo provocatoriamente a pestare i piedi. Ma anche il primo libro scritto da un robot, in Russia; la macchina che mostra agli spettatori “come essere un altro”; la teledildonica per relazioni sessuali a distanza. Inquietanti paesaggi urbani sono il clou della terza parte: “essere artefici del proprio ambiente”. Ipotetiche famiglie allargate di un mondo dove si vive 150 anni, speciali montagne russe per dare un’eutanasia euforica e un sistema per garantire la vita dopo la morte infondendo l’energia dei cadaveri in pile elettriche sono suggerite nella quarta parte: “La vita ai limiti”. Mentre pezzi forti della quinta parte, “Umano, sovrumano”, sono le sculture cinetiche in lattice che a Donato Piccolo sono state ispirare da Leonardo da Vinci. “Leonardo sogna le nuvole”: muove le labbra ed espelle nuvole di fumo ad intervalli irregolari. “Sebastiano (il nottambulo)”: un uomo piegato in camice bianco sulla cui schiena piccoli bracci robotici disegnano.

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